Bocciatura netta
A volte il tempo è galantuomo. Accade, comincia ad accadere, anche in tema di politiche migratorie. Ci sono voluti quasi due anni ma infine, il 9 luglio 2020, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 13 del decreto legge 4 ottobre 2018 n. 113 (cosiddetto “decreto sicurezza” o “decreto Salvini”) che precludeva – o almeno sembrava precludere ‒ l’iscrizione anagrafica ai titolari di permesso di soggiorno per richiesta asilo.
Non si trattava di una semplice formalità poiché l’iscrizione all’anagrafe è il presupposto per poter accedere a una serie di servizi sociali e, dunque, la sua mancanza comporta uno status di cittadino di serie B, privato di diritti fondamentali.
La Consulta ha dichiarato che la norma contrasta, senza alcun ragionevole motivo, con l’art. 3 della Costituzione che prevede il principio di uguaglianza delle donne e degli uomini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione» o di altro genere, e impegna lo Stato a «rimuovere gli ostacoli» che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
È una bocciatura netta e senza appello di uno dei capisaldi delle politiche migratorie del governo giallo-verde e della legislazione tesa alla sua attuazione. In verità alcuni giudici – naturalmente accusati di “fare politica” – già avevano ritenuto che, nel caso in esame, l’iscrizione anagrafica fosse comunque possibile ma la gran parte dei Comuni si atteneva a un’interpretazione formalistica e restrittiva e l’incertezza regnava sovrana. Di qui l’importanza pratica, oltre che di principio, della sentenza della Corte.
Un’importanza fondamentale anche sotto un altro profilo. La maggioranza parlamentare che sostiene il governo giallo-rosso aveva promesso di intervenire per modificare i cosiddetti decreti sicurezza voluti, in particolare, dal precedente ministro dell’interno Salvini. Ma, a quasi un anno dall’insediamento del nuovo governo, nulla è cambiato. Nell’imminenza della sentenza della Corte si sono susseguite nuove assicurazioni e indiscrezioni su un testo di modifica ma non si è andati oltre alcune riunioni interministeriali concluse con l’immancabile rinvio. Se non basterà nemmeno la sentenza della Corte a fare da traino a un intervento normativo di profonda discontinuità con il passato sarà l’ennesimo fallimento della politica.
Abbiamo pensato di condividere con le lettrici e i lettori di Edizioni Gruppo Abele un estratto dal capitolo Territorio e diritti del libro Il razzismo è illegale. Strumenti per un’opposizione civile, scritto da vari autori provenienti da Arci, Asgi, Gruppo Abele e Libertà e Giustizia. Il libro è disponibile su questo sito e in libreria, oltre che in ebook, ed è uno strumento ancora molto attuale per dimostrare – se ancora ce ne fosse bisogno – che i comportamenti razzisti non sono solo contrari all’etica e alla morale, ma anche profondamente illegali.
Livio Pepino
Il razzismo è illegale – Capitolo 4
3. L’iscrizione anagrafica è un diritto
Il protagonismo degli enti locali, oltre a dare concreta accoglienza e a gettare le basi per una nuova cultura, ha sollecitato una resistenza anche sul piano dell’interpretazione delle norme tese a tutelare i diritti dei migranti sul territorio. I casi ad oggi più rilevanti, ma suscettibili di numerose integrazioni, riguardano le questioni dell’iscrizione anagrafica e dell’accesso ai servizi territoriali.
Il decreto legge n. 113/2018 – come si è detto ‒ ha apportato al sistema vigente drastiche modifiche restrittive precludendo tra l’altro, all’apparenza, l’iscrizione anagrafica dei richiedenti protezione internazionale. L’art. 13 del decreto legge ha, infatti, aggiunto all’art. 4 del decreto legislativo n. 142/2015 il comma 1 bis secondo cui il permesso di soggiorno per richiesta asilo “non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’art. 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. La norma è stata interpretata come preclusiva dell’iscrizione anagrafica, suscitando le già ricordate reazioni di alcuni sindaci e molte critiche di sospetta illegittimità costituzionale poiché ciò escluderebbe da un diritto fondamentale una categoria di persone in difetto di ragionevole motivazione giustificatrice, e dunque in violazione dell’art. 3 Costituzione.
In realtà, peraltro, il sistema è suscettibile di una diversa interpretazione più conforme al dettato costituzionale. L’articolo citato, infatti, a prescindere dalle intenzioni del legislatore, non pone alcun esplicito divieto di iscrizione anagrafica, ma si limita a escludere che il permesso di soggiorno fondato dalla richiesta d’asilo costituisca documento utile per formalizzare la domanda di residenza. E il divieto normativo implicito di un diritto soggettivo, come quello all’iscrizione anagrafica, appare difficilmente concepibile nel nostro ordinamento. Anzitutto perché sarebbe in contrasto con norme gerarchicamente superiori come l’art. 2 del Protocollo n. 4 allegato alla Cedu, ratificato e reso esecutivo in Italia con il decreto Presidente della Repubblica n. 217/1982 sulla Libertà di circolazione (in forza del quale: “Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza”), e l’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale il 16 dicembre 1966, e reso esecutivo in Italia con legge n. 881/1977 (secondo cui: “Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla liberta di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio”). E poi perché contrasterebbe con i principi generali del nostro sistema in punto di iscrizioni anagrafiche, che non sono stati modificati dal decreto n. 113: in particolare, l’art. 6, comma 7, decreto legislativo n. 286/1998, secondo il quale le “iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani”. Ma se la norma in esame non pone un divieto di iscrizione anagrafica il tema è quello di verificare se esistono documenti diversi dal permesso per richiesta asilo che consentono al richiedente di vedersi riconoscere il diritto/dovere alla residenza anagrafica.
La residenza, secondo la definizione del codice civile, è semplicemente il “luogo in cui la persona ha la dimora abituale” (art. 43, comma 2). Ora se il cittadino italiano deve dimostrare unicamente la stabile permanenza in un luogo e la volontà di rimanervi, il cittadino straniero deve dimostrare anche di essere regolarmente soggiornante in Italia, come espressamente richiedono la legge anagrafica n. 1228/1954 e il conseguente regolamento, dovendo peraltro ritenersi illegittime – come precisato nelle Linee guida 2014 elaborate in collaborazione con il Ministero dell’interno – “quelle prassi volte a richiedere agli stranieri, in aggiunta alla dimora abituale e alla regolarità del soggiorno, ulteriori condizioni per l’iscrizione anagrafica” (Circolari Ministero dell’interno, n. 8 del 1995 e n. 2 del 1997).
Ebbene, per i richiedenti la protezione internazionale la regolarità del soggiorno, più che dal relativo permesso (che, teoricamente, potrebbe anche non essere ritirato o essere ottenuto in ritardo, come spesso accade), è comprovata dall’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione e quindi dalla compilazione del modello a ciò deputato e/o dalla identificazione effettuata nell’occasione dalla questura. L’uno o entrambi i documenti certificano la regolarità del soggiorno in Italia e consentono, quindi, di procedere all’iscrizione anagrafica ai sensi della normativa vigente.
Questa interpretazione, già adottata da alcuni Comuni, è stata avallata in ultimo – in attesa di una parola definitiva da parte della Corte costituzionale (già investita della questione dai ricorsi di alcune Regioni) – dal Tribunale di Firenze che, con provvedimento emesso in via di urgenza il 18 marzo 2019, ha ordinato al Comune di Scandicci “di provvedere alla immediata iscrizione del cittadino somalo F.M.S. nel registro anagrafico della popolazione residente”, motivando come segue:
posto che ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale, deve intendersi regolarmente soggiornante, in quanto ha il diritto di soggiornare nel territorio dello Stato durante l’esame della domanda di asilo ai sensi dell’art. 9 della direttiva 2013/32/Ue, attuato dall’art. 7 decreto legislativo n. 25/2008 […], si deve ritenere che il “titolo” necessario per l’acquisizione della condizione di regolare soggiorno sia rappresentato dall’avvenuta presentazione della domanda in questione. Non v’è dubbio, allora, che per i richiedenti la protezione internazionale la regolarità del soggiorno sul piano documentale ben possa essere comprovata attraverso gli atti inerenti l’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione e, in particolare, attraverso il cd. “modello C3” e/o mediante il documento nel quale la questura attesta che il richiedente ha formalizzato l’istanza di protezione internazionale. L’uno o entrambi i documenti certificano la regolarità del soggiorno in Italia. […] Dall’inidoneià del permesso di soggiorno quale “titolo” atto a comprovare la regolarità del soggiorno non potrebbe, dunque, essere desunto sic et simpliciter alcun divieto di iscrizione anagrafica per il richiedente asilo, il quale ‒ giova ribadirlo ‒ può fornire prova di tale condizione giuridica attraverso i citati documenti relativi alla presentazione della domanda di asilo. In definitiva, alla stregua delle suesposte considerazioni, applicando i criteri di interpretazione letterale e sistematica, si ritiene che debba essere escluso che il comma 1-bis dell’art. 4 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 abbia stabilito un divieto di iscrizione anagrafica per il richiedente.
4. Richiedenti protezione internazionale e accesso ai servizi
Anche ove si ritenga che la modifica legislativa non consente l’iscrizione anagrafica, ciò non osta peraltro – secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, adottata da diversi Comuni – all’accesso ai servizi dei richiedenti la protezione internazionale.
L’art. 5, comma 3, del decreto legislativo n. 142/2015, modificato dal decreto legge n. 113, garantisce, infatti, espressamente ai richiedenti asilo l’accesso a tutti i servizi previsti dal decreto e anche a quelli comunque erogati sul territorio sulla base del domicilio dichiarato al momento della formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale (“L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti e assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2”).
Questo significa che il/la richiedente asilo ha diritto a tutte le prestazioni erogate sul territorio comunale. Dato che la norma non fa riferimento ai soli servizi erogati dalla pubblica amministrazione deve inoltre ritenersi che siano compresi anche i servizi di pertinenza di soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari etc. Sono dunque ricompresi, a titolo esemplificativo, i servizi afferenti all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia), alla formazione (anche professionale), ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane e via seguitando.
Per quanto riguarda l’accesso ai corsi di formazione, l’abrogazione, disposta dal decreto legge n.113/2018, dell’art. 22, comma 3, decreto legislativo n. 142/2015 (secondo cui “I richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell’art. 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale dedicato all’accoglienza del richiedente”) riguarda i corsi predisposti nell’ambito del programma di accoglienza (Sprar o Cas) ma non anche quelli offerti sul territorio comunale indistintamente a tutti. Si porrà, evidentemente, il problema del costo per garantire la partecipazione a detti corsi, tenuto conto che i nuovi capitolati d’appalto per la gestione delle strutture di accoglienza non prevedono obbligatoriamente l’erogazione di servizi di tal genere. E qui avranno un ruolo decisivo quegli enti locali che, per rendere effettiva l’accoglienza e gestire razionalmente il fenomeno migratorio, potranno introdurre nel bilancio comunale o regionale voci di spesa destinate anche ai richiedenti asilo.
Analogamente, per l’iscrizione ai Centri per l’impiego, la disposizione di cui all’art. 5, comma 3, decreto legislativo n. 142/2015 va coordinata con quanto previsto dall’art. 22 del medesimo decreto, secondo cui, trascorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, il/la richiedente asilo ha diritto di svolgere attività lavorative. Tale diritto comprende, necessariamente, anche l’iscrizione al Centro per l’impiego, propedeutico alla ricerca di opportunità lavorative. Del resto, l’art. 11, comma 1, lett. c del decreto legislativo n. 150/2015, nel riorganizzare il Servizio regionale per il lavoro (che comprende i Centri per l’impiego), stabilisce il principio della “disponibilità di servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla Regione o Provincia autonoma di residenza” e la locuzione “a tutti i residenti sul territorio italiano” deve intendersi fare riferimento non alla residenza anagrafica ma a quella civilistica (art. 43 codice civile). Pertanto, l’iscrizione ai Centri per l’impiego dovrà essere consentita anche in assenza di iscrizione anagrafica.
Una precisazione va fatta con riguardo all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale, tenuto conto che qualche organo di stampa riferisce dubbi sul punto di alcuni amministratori pubblici in difetto di residenza anagrafica. Il dubbio è del tutto infondato che l’iscrizione al Servizio sanitario è espressamente prevista anche per i richiedenti asilo dall’art. 34 Testo unico immigrazione, il cui comma 1 stabilisce che: “Hanno l’obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale e hanno parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all’obbligo contributivo, all’assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e alla sua validità temporale: a) gli stranieri regolarmente soggiornanti che abbiano in corso regolari attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo o siano iscritti nelle liste di collocamento; b) gli stranieri regolarmente soggiornanti o che abbiano chiesto il rinnovo del titolo di soggiorno, per lavoro subordinato, per lavoro autonomo, per motivi familiari, per asilo, per protezione sussidiaria, per casi speciali, per protezione speciale, per cure mediche ai sensi dell’art. 19, comma 2, lettera d bis), per richiesta di asilo, per attesa adozione, per affidamento, per acquisto della cittadinanza; b bis) i minori stranieri non accompagnati, anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno, a seguito delle segnalazioni di legge dopo il loro ritrovamento nel territorio nazionale”. Pertanto, l’accesso al Servizio sanitario nazionale deve essere garantito anche ai richiedenti asilo, pur in difetto di residenza anagrafica, sulla base del solo domicilio eletto in sede di presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
Per quanto riguarda l’accesso ai servizi erogati da soggetti privati (banche, poste, assicurazioni, agenzie immobiliari etc.), infine, nessuna norma prevede che venga esibito il certificato di residenza, essendo sufficiente un documento di riconoscimento, che nel caso dei richiedenti asilo è il permesso di soggiorno per richiesta asilo. L’art. 4, comma 1, decreto legislativo n. 142/2015 stabilisce, infatti, che “il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera c, del decreto del presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445” (secondo cui “si intende per documento di riconoscimento ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l’identificazione personale del titolare”). Si aggiunga che l’art. 126 noviesdecies decreto legislativo n. 385/1993 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) stabilisce espressamente, con riferimento all’apertura di un conto corrente (conto di base), che: “Tutti i consumatori soggiornanti legalmente nell’Unione europea, senza discriminazioni e a prescindere dal luogo di residenza, hanno diritto all’apertura di un conto di base nei casi e secondo le modalità previste dalla presente sezione. / Ai fini della presente sezione, per consumatore soggiornante legalmente nell’Unione europea si intende chiunque abbia il diritto di soggiornare in uno Stato membro dell’Unione europea in virtù del diritto dell’Unione o del diritto italiano, compresi i consumatori senza fissa dimora e i richiedenti asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, del relativo protocollo del 31 gennaio 1967 nonché ai sensi degli altri trattati internazionali in materia”. Anche per l’apertura di un conto corrente non è necessario, dunque, avere la residenza o la carta di identità ma è sufficiente il permesso di soggiorno, anche per richiesta asilo. È un diritto che va rigorosamente fatto rispettare, tenuto anche conto che dal 1 luglio 2018 il pagamento degli stipendi non può essere fatto in contanti, rendendo necessaria l’attivazione di un conto corrente (art. 1, comma 910, legge n. 205/2017).