Il 25 novembre si celebra la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una data che quest’anno cade dopo il tragico femminicidio di Giulia Cecchettin, evento che ha scosso profondamente l’opinione pubblica.
Fra le tante parole spese in questi giorni sui media, si è riacceso il dibattito sull’inasprimento delle pene per i reati di genere. In questo contesto, emergono le voci di molti movimenti femministi moderni che, anziché richiedere nuove leggi, sottolineano l’importanza dell’applicazione corretta delle leggi esistenti, con un particolare focus sul Codice Rosso.
Il Codice Rosso e la tutela delle vittime
La legge 69/2019, chiamata Codice Rosso, rappresenta uno sforzo significativo per la tutela delle vittime di violenza di genere e violenza domestica in Italia.
Composto da 21 articoli, il codice fa proprio il concetto di violenza domestica proposta dalla Convenzione di Istambul:
si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima
(articolo 3 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica)
Il Codice Rosso ha introdotto inasprimenti di pena e ha esteso i termini per la denuncia da 6 a 12 mesi. Questa legislazione ha anche codificato nuove fattispecie di reato, come il revenge porn, la deformazione dell’aspetto, la costrizione al matrimonio e la violazione dei provvedimenti di allontanamento.
Le criticità del sistema
Nonostante le disposizioni del Codice Rosso, molte donne che hanno provato a denunciare i reati previsti da questa legislazione raccontano di non essere state adeguatamente ascoltate o credute dalle forze dell’ordine. Ci sono stati casi di vittimizzazione secondaria e la minimizzazione di alcuni comportamenti maschili tossici, addirittura etichettati come semplici “atti di corteggiamento”. La scarsa preparazione ed empatia di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine solleva interrogativi cruciali sul funzionamento del sistema giudiziario e di applicazione delle leggi.
La necessità di formazione efficace
In risposta a queste criticità, la maggior parte dei movimenti femministi propone un approccio orientato alla formazione. Piuttosto che introdurre ulteriori leggi, sottolineano la necessità di una formazione più efficace per le forze dell’ordine e la magistratura, al fine di garantire l’applicazione corretta e tempestiva delle leggi esistenti. Scongiurando, in questo modo, una deriva panpenalistica per la quale ogni problema della società sarebbe risolto – magicamente – dalla semplice introduzione di nuovi reati.
Il contributo di Tamar Pitch – Il malinteso della vittima
Da un’analisi più ampia sulle dinamiche di genere, Tamar Pitch nel suo libro Il malinteso della vittima mette in luce come il femminile sia spesso intrappolato nella figura della vittima. Ciò solleva la questione fondamentale della percezione delle donne come vittime potenziali e dell’utilizzo di termini come vulnerabilità e debolezza nei contesti di sicurezza, tematiche che richiedono una profonda riflessione e azioni concrete.
Riportiamo qui di seguito un estratto dal capitolo IV: L’uso politico del potenziale simbolico del penale.
Il femminile è la figura principe della vittima, sia in quanto vittima potenziale dei «cattivi», quelli che non sono come «noi», gli stranieri, i migranti, sia come emblema e metafora della comunità (fittizia) minacciata: la «cultura» nazionale o locale, la tradizione, la lingua, la religione. Le «nostre donne» sta per tutto questo. Non per caso, la scoperta recente (in Italia) della violenza maschile contro le donne, specialmente quella intrafamiliare o relativa alle relazioni di intimità, ha dato luogo a una possente campagna i cui leitmotif sono la vulnerabilità, la debolezza, la fragilità femminile. Protezione, tutela, sicurezza per le «vittime» o potenziali tali: queste parole d’ordine sono sfociate appunto nel decreto sicurezza firmato da Maroni109, in cui norme per contrastare il cosiddetto femminicidio sono inserite assieme a norme che militarizzano, in nome della «sicurezza», i cantieri del treno ad alta velocità della Val Susa. Insomma, le donne, e il femminile in generale, sono continuamente evocati dentro i discorsi e i dispositivi di sicurezza, talvolta in senso metaforico, spesso del tutto concretamente, come in quest’ultimo caso. Uno dei problemi è che vi sono donne e movimenti delle donne che giocano anch’essi a questo gioco, oppure non si accorgono di esserne giocati. Già rilevavo questo problema nel 1989, a proposito della campagna contro lo stupro. Ora, tuttavia, le derive securitarie di un discorso incentrato sulla vittimizzazione sono molto più chiare di trentacinque anni fa. Certo, qualche guadagno in termini di visibilità lo si ottiene sempre, e questo può attrarre alcune. Ma le conseguenze per la costruzione del femminile e per la libertà delle donne in concreto possono essere, e sono, molto pesanti. In Italia, il discorso securitario viene rafforzato dalle campagne contro la prostituzione e la Gpa. Non c’è dubbio che il terreno, nei due casi, come ho cercato di spiegare, sia complesso e scivoloso, ma, in ambedue i casi, il rischio di contribuire all’appiattimento della scena politica sull’antagonismo tra buoni e cattivi, perbene e permale, appiattimento tipico dei processi di securitizzazione, è molto alto.
Tra l’altro, e infine, vi è un paradosso del tutto evidente nell’idea che la protezione delle donne dalla violenza maschile possa essere affidata alla logica del discorso e delle politiche securitarie: perché, se davvero volessimo proteggere le donne con le misure previste dalle politiche di sicurezza, allora dovremmo sbattere tutti gli uomini dietro le sbarre, oppure mettere una poliziotta in ogni casa. E ragionare su questo paradosso mi sembra essenziale, visto che più di metà della popolazione umana è costituita da donne. Invece, anche qui, il soggetto standard la cui protezione giustifica le politiche di sicurezza è un soggetto maschile, non riconosciuto come tale. Perché è vero che le violenze contro le donne sono prese a pretesto per nuove e più estese politiche repressive, ma l’insistenza sulla sterilizzazione dello spazio urbano, la lotta contro le figure tipiche della «paura» (mendicanti, rom, stranieri, tossici etc.) ha al centro un soggetto maschile, non troppo giovane, non troppo povero, il quale non ha bisogno di proteggersi dentro le mura domestiche, ma solo nello spazio pubblico, e da persone sconosciute. Viceversa, le donne hanno assai più da temere da chi conoscono bene, anche intimamente e dentro casa, o nei luoghi di lavoro, che nello spazio pubblico (il quale è a loro ancora interdetto, specialmente in certe ore e in certe zone) e da parte di sconosciuti. Il fatto è che la consapevolezza che la violenza interpersonale è agita soprattutto dai maschi, a danno sia delle donne che di altri maschi, non è ancora penetrata appieno non dico nel disegno delle politiche pubbliche, ma neanche negli studi scientifici, critici e no, sulla criminalità e la sicurezza.
(Tamar Pitch, Il malinteso della vittima, capitolo IV: L’uso politico del potenziale simbolico del penale, pp. 81-83)
Conclusioni
In un contesto in cui la sicurezza delle donne è una priorità fondamentale, il dibattito si dovrebbe sviluppare con una riflessione critica sulla giustizia e sull’efficacia delle misure esistenti, oltre che l’introduzione di una seria educazione sessuale e affettiva nelle scuole. La sfida è trovare un equilibrio tra leggi adeguate, applicazione corretta da parte di forze e dell’ordine e magistratura e una società consapevole che respinga comportamenti tossici, maschilisti e patriarcali.