Editoriale

Cocaina: verso una legalizzazione?

Editoriale Grazia Zuffa cocaina

Nella prima settimana di ottobre, il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ha cancellato le pene per più di seimila persone condannate per il reato federale di possesso di marijuana. Questa decisione è stata motivata dal fatto che in 19 stati americani il possesso di cannabis è legale, quindi non aveva più senso – da un punto di vista federale – che tante persone fossero in carcere per questo motivo.

Il 12 ottobre l’Economist, una delle riviste britanniche più blasonate e importanti, ha pubblicato un editoriale dal titolo Joe Biden is too timid. It is time to legalise cocaine (“Joe Biden è troppo timido. È tempo di legalizzare la cocaina”), accendendo i riflettori su una questione da tempo dibattuta dalla politica – molto spesso senza competenze in materia – e da studiose e studiosi: è giusto legalizzare le droghe, e in particolare quelle cosiddette “pesanti”? E, soprattutto, ha ancora senso distinguere le sostanze in droghe pesanti e leggere?

Abbiamo chiesto un’opinione in merito alla dottoressa Grazia Zuffa, studiosa di lungo corso del tema delle dipendenze e delle sostanze psicoattive, che per Edizioni Gruppo Abele ha curato diversi saggi sull’argomento e ha coordinato la traduzione italiana di Droga, set e setting di Norman Zinberg, caposaldo della letteratura scientifica sull’uso controllato di sostanze psicoattive.


 

Comincio separando in due quesiti la proposta dell’Economist: è opportuno legalizzare una droga “pesante” come la cocaina? Ed è bene farlo ora, in contemporanea alla legalizzazione della cannabis? Alla prima domanda risponderei sì. Alla seconda: probabilmente no, ma cominciamo a creare le premesse.

Quanto alle motivazioni dell’Economist per legalizzare, mi permetto di correggere il tiro, offrendo un punto di vista che dà ragione sia del consenso che della cautela. La regolazione legale ridurrebbe l’enorme circuito criminale ed eliminerebbe i rischi del prodotto illegale, è vero; è invece scorretto annoverare fra i rischi il fatto che “gli studi scientifici sulla cocaina siano pochi e che non possiamo dire con certezza se la dipendenza che crea sia superiore o meno a quella creata da alcol e tabacco”.

Come funziona la dipendenza

Come spiegato dallo studioso Norman Zinberg già nel secolo scorso, solo un errore di farmacocentrismo può indurre a pensare che la dipendenza proceda dalla chimica delle droghe: questa risiede invece nell’esperienza umana, plasmata dai meccanismi di autoregolazione e soprattutto di regolazione sociale: nell’incontro, dunque, fra la persona e le sostanze. Questa spiegazione dell’uso di droga è sostenuta da un corpo importante di studi sull’esperienza di consumatori di droghe, molti di cannabis, ma altrettanti, forse anche di più, di cocaina (in America, Canada, Olanda, Belgio, anche Italia, come affrontato in Droghe e autoregolazione, a cura di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi, uscito per Ediesse nel 2017).

Queste ricerche consentono di spostare il focus dalla dipendenza alla varietà dei modelli d’uso, di cui il consumo intensivo/dipendente rappresenta solo una piccola parte. E spiegano anche come, nonostante la “pesantezza” chimica, la gran parte dei consumatori di cocaina riesca a consumare evitando lo “scenario peggiore”, ovvero l’escalation verso il picco (stabile) della dipendenza: facendo cioè ricorso a una varietà di regole (i cosiddetti controlli informali), funzionali a far sì che il consumo non comprometta le attività e gli interessi della “normalità” di vita.

L’esempio dell’alcol

Questo concetto è di immediata comprensione pensando a una sostanza psicoattiva ben conosciuta e legale: l’alcol. Il controllo (non l’alcolismo) è la regola dei bevitori, proprio in virtù dell’esperienza diffusa del bere e dell’insieme dei saperi sociali e informali circa il come, il quando, e il quanto del bere sicuro. E sappiamo che il rischio del bere incontrollato non è in rapporto lineare con la diffusione (la prevalenza) del consumo: basti l’esempio storico dei paesi della Temperanza (vedi gli Usa), a bassa prevalenza d’uso ma ad alta percentuale di uso problematico e intensivo. Osservazione, quest’ultima, utile a ridimensionare il paventato pericolo di un intollerabile aumento di uso intensivo/problematico a fronte di un possibile ampliamento dei consumi in regime legale.

La legalizzazione è connivenza con il male?

Perché si ignora questo corpo di conoscenze? Perché contrasta con l’enfasi sulla dipendenza, indispensabile a dimostrare la necessità della proibizione quale unica modalità per controllare sostanze altrimenti incontrollabili. Sulla base di questa ideologia, parlare di controlli informali sulle droghe è considerata quasi un’eresia, una connivenza con il Male, ed educare a un uso più sicuro diventa un incentivo a drogarsi. In più, in regime di proibizione, i rituali e le regole sociali per un uso controllato non possono far parte della cultura corrente comune e del discorso pubblico, come avviene per il bere. Il sapere sui controlli delle droghe illegali è perciò meno sviluppato, con maggiori difficoltà per il consumatore nel processo di autoregolazione. Proprio qui sta una ragione chiave a sostegno della legalizzazione, ma al tempo stesso anche di una prudente gradualità.

Cambiamo i paradigmi

Negli anni ottanta, Norman Zinberg proponeva un approccio step by step, iniziando dal decriminalizzare e poi legalizzare la marijuana, per la sua “normalizzazione” legata allo sviluppo di un consumo controllato e alla sua visibilità sociale. Quasi cinquanta anni dopo, la cannabis legale è sperimentata in molte parti del mondo, mentre il processo di normalizzazione della cocaina ha ancora strada da fare. La mia proposta: prepariamo il cambio di regime sulla cocaina, cominciando dal cambio di sguardo sulle droghe e sui (colpevolmente negletti) meccanismi sociali di controllo.

Grazia Zuffa


In copertina, foto di Juan Pablo Serrano Arenas

PER APPROFONDIRE

Droga, set e setting
La droga in testa - Una nuova narrazione, di Henri Margaron
Cocaina. Il consumo controllato
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