È di pochi giorni fa la notizia della deposizione di un disegno di legge, proposta dal senatore della Lega Manfredi Potenti, che vieterebbe l’uso della declinazione al femminile di titoli e ruoli negli atti ufficiali. Pena per chi sgarra? Fino a 5000 euro di multa. Quindi via sindaca, assessora, magistrata, avvocata, altrimenti tocca pagare. Il ddl è stato prontamente ritirato dalla Lega, che ha commentato il fatto come un’iniziativa personale del senatore Potenti. Ma il tema è sul tavolo.
Al netto del fatto che i femminili professionali sono parole corrette della lingua italiana – come evidenziano anche enciclopedie e dizionari – l’improvvido disegno di legge ha riportato alla luce il fastidio che il mondo conservatore prova nei confronti di qualsiasi iniziativa volta a superare uno status quo che è, evidentemente, figlio di logiche maschiliste e patriarcali.
Il fatto che termini come avvocata e ministra facciano storcere il naso mentre maestra e infermiera no indica fondamentalmente due cose: la prima, che nelle posizioni di potere le donne sono arrivate molto dopo rispetto agli uomini (la prima ministra della storia repubblicana italiana è stata Tina Anselmi nel 1976, ad esempio); la seconda, che declinare al femminile le professioni prestigiose viene ancora oggi percepito come sminuente (anche da molte donne). Entrambi questi sottotesti hanno una chiara radice comune: una società maschilista.
Anche di questo si è occupata Manuela Manera nel suo ultimo libro, Fa differenza. Comunicazione corretta e lotta di classe, di cui riportiamo un estratto significativo sul tema.
Ri-nominare di nuovo
Può capitare che, nel corso della storia di una società, alcune parole si carichino di un significato connotativo negativo, cioè portino con sé un implicito giudizio che proietta sul referente aspetti ritenuti sfavorevoli o sconvenienti.
Ciò può avvenire quando il vocabolo è usato in contesti discorsivi monolitici, ancorati rigidamente a un solo immaginario: è il caso, per esempio, di espressioni come la segretaria, la governante, la cubista, la maestra, una donna disponibile che hanno finito con il restringere la loro portata semantica originaria e si sono appiattiti su ruoli e caratteristiche specifiche, caratterizzati da tratti come «poco prestigio, lavoro ausiliario, sessualizzazione». Il corrispettivo maschile di queste espressioni invece, in modo complementare, ha altre connotazioni: il segretario, il governante indicano capi di Stato e incarichi di potere; se pensiamo a un cubista ci viene in mente Pablo Picasso non certo un giovane uomo attraente che balla in bella vista su uno spazio rialzato in discoteca; il maestro è una guida, un modello da seguire, o è direttore per esempio di un’orchestra; un uomo disponibile è generoso e di certo non allude alla disponibilità sessuale che invece è intesa con donna disponibile (ma anche con donna libera, donna di strada, donna allegra, massaggiatrice…). Non è colpa delle parole se restituiscono un immaginario di questo tipo, perché, in effetti, non fanno che riflettere il disvalore che nella nostra società storicamente è attribuito alle donne o a certi lavori, come quelli legati alla cura. Non è un caso che i maschili papà e padre siano spesso sostituiti con il neologismo mammo quando riferiti al lavoro di accudimento della prole: una spia linguistica che testimonia quanto valori patriarcali e sessisti siano ancora largamente diffusi.
Femminili professionali: non esiste il “maschile neutro”
Il fatto che i nomi delle professioni (nomina agentis) nella variante femminile veicolino stereotipicamente l’idea di subordinazione e sessualizzazione (anche per eredità di certe commedie anni Settanta che avevano nel titolo e come protagonista, per esempio, la poliziotta, la marescialla, la pretora) spinge spesso le donne stesse a scegliere per sé una nominazione al maschile, argomentando che si tratterebbe di nomi neutri. Oltre all’incoerenza cui si condannano nel momento in cui invece per certe professioni il femminile viene comunque usato (es. la commessa, la barista, la cassiera, l’infermiera…), dimenticano che la nostra grammatica prevede la declinazione al maschile e al femminile per tutti gli incarichi; infatti, anche quelli cui le donne non potevano accedere avevano già, nel nostro sistema linguistico, la parola pronta, come è accaduto per magistrata, fino al 1963 professione non permessa alle donne: le parole ci sono, basta metterle in circolazione – in modo appropriato.
Le parole assorbono le connotazioni portate dall’uso; queste possono lambire anche la denotazione e limitare il significato a un ambito ristretto e stereotipico. Fino a quando al femminile verrà socialmente e culturalmente associata una marcatura di disvalore, anche la lingua lo rispecchierà e lo riprodurrà, in un circolo vizioso che si può interrompere agendo su più livelli: non ultimo quello linguistico, direttamente connesso con l’immaginario e con la narrazione delle esperienze. Se le espressioni elencate sopra (e tante altre) iniziano a essere usate in contesti discorsivi positivi e parlo, per esempio, della direttrice d’orchestra, di una grande maestra della letteratura novecentesca, della segretaria di partito… ecco che il rapporto tra nome e referente si spoglia di connotazioni sminuenti, svilenti, limitate. Usare in modo appropriato le parole restituisce loro un significato pieno e ampio: e agisce sugli immaginari, con una ricaduta sulla società tutta.
Ri-nominazioni: un’operazione di facciata?
Ci sono nominazioni che vengono sostituite da altre nominazioni con lo scopo di dare una definizione più precisa e corretta, liberando al tempo stesso la referenza da quelle connotazioni spesso degradanti e stigmatizzanti che la vecchia nominazione portava con sé. Simili cambiamenti, però, sono considerati sovente alla stregua di un’operazione di facciata, inutile e anche ipocrita. Che senso ha usare collaboratrice scolastica al posto di bidella oppure operatore ecologico al posto di spazzino o netturbino? Davanti a simili esempi viene da pensare a un effetto cipria: un imbellettamento che nasconde i difetti, insomma un’operazione linguistica per narrare in modo più fresco e accattivante professioni che nella nostra società continuano comunque a essere considerate umili se non svilenti. Si può parlare dunque di copertura di un problema? La parola copertura indica certamente l’atto del coprire, nel senso di mettere al riparo e anche nascondere; ma indica anche, per esempio nella formula «copertura mediatica», l’attenzione che si pone verso un tema e la sua diffusione tramite notizie e informazioni.
Cambiare i nomi cambia gli immaginari
Cambiare i nomi è un’operazione che va contestualizzata e, come sempre, dovrebbe suggerirci delle riflessioni: che cosa ci dice la nuova nominazione, quando avviene, cosa rende più visibile, quale ricaduta ha sugli immaginari e sulla società? Il fatto, ad esempio, di sostituire bidella con «collaboratrice scolastica» (voce attestata dal 1987) rende evidente l’importanza del suo lavoro per un buon funzionamento dell’intero sistema scolastico e non appiattisce le sue mansioni – come ancora si crede comunemente – alla sola pulizia dei locali. Lo stesso può dirsi per operatore ecologico, che rompe la connessione univoca con la spazzatura e associa la professione a un contesto più ampio di equilibri ambientali. Il portato delle nuove nominazioni è positivo e rimarca il valore di ciò che indica; l’operazione dunque non è un’azione volta a nascondere, ma – al contrario – a visibilizzare, a «coprire mediaticamente» uno snodo importante: lavori che dalla società sono ritenuti in poco conto (e come tali vengono narrati) sono in verità alla base del benessere collettivo.
Rinominare non basta
Il problema è che, come spesso avviene, il cambiamento linguistico non è accompagnato da un cambiamento delle condizioni materiali, in questo caso lavorative e salariali. L’ipocrisia non sta nelle parole, in sé, ma in un sistema economico che le sfrutta per nascondere le proprie falle. Usare le nuove espressioni con convinzione è importante proprio per smascherare lo status quo e far crescere nelle persone la consapevolezza dell’importanza di certe professioni e di come siano necessari cambiamenti radicali che ne riconoscano, anche su un piano concreto, il valore. Le ri-nominazioni smettono di essere pro forma (pura formalità) se vengono impugnate per portare avanti rivendicazioni.
Estratto da Manuela Manera, Fa differenza. Comunicazione corretta e lotta di classe, Edizioni Gruppo Abele, 2024, pp. 119-124