Editoriale

La Resistenza partigiana e la guerra in Ucraina

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Lo spettro della guerra in Ucraina si aggira per tutta l’Europa. Uno spettro che non solo catalizza su di sé tutta l’attenzione mediatica – com’è normale che sia – ma soprattutto polarizza la narrazione e costringe, un po’ forzatamente, tutte e tutti a prendere una posizione.

I due schieramenti europei sono, giocoforza, quello dei pacifisti e quello degli interventisti. Entrambi gli schieramenti, in modi differenti, citano la Resistenza dei partigiani e i loro valori.

Il giornalista Lorenzo Guadagnucci ha esplorato questa narrazione in un articolo pubblicato il 16 marzo su Volere la Luna, dal titolo La Resistenza tra pacifisti e interventisti, che qui riportiamo integralmente.


 

La Resistenza tra pacifisti e interventisti

 

Pacifisti (in apparenza pochi) da una parte, interventisti (in apparenza molti) dall’altra e un clima mediatico e politico che ricorda sinistramente la primavera del 1915, il “maggio radioso” che spinse l’Italia, fin lì neutrale, a partecipare alla Grande Guerra, l’“inutile strage”, secondo la celebre definizione che ne diede papa Benedetto XV.

La divisione fra i due punti di vista si è manifestata soprattutto il 5 marzo scorso, con il corteo pacifista di Roma, il suo no all’invio di armi in Ucraina e il suo sì a una mediazione internazionale in sede Onu, ma poco compare nei flussi informativi quotidiani, dominati – nei maggiori quotidiani, nei principali network radio e televisivi – dall’opzione interventista, che pure, mentre invoca sostegno militare al governo ucraino e la necessità di “fermare Putin”, resta ambigua e silente sui passaggi cruciali indicati dallo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che non si stanca di chiedere un intervento diretto della Nato, a cominciare dall’istituzione di una “no fly zone”.

Per quanto poco e male rappresentata, la divaricazione fra pacifisti e interventisti esiste e affonda le radici nella storia, non solo riecheggiando il “maggio radioso” di oltre un secolo fa, ma anche passaggi essenziali della nostra vicenda nazionale, come l’esperienza della Resistenza, evocata proprio dagli interventisti, con il governo e i combattenti ucraini novelli partigiani e i paesi fornitori di aiuti militari nei panni degli Alleati e dei loro lanci alle bande nascoste in montagna. Quest’ultimo è un accostamento – lo hanno rimarcato storici e osservatori autorevoli – che trascura una differenza non marginale fra la condizione attuale e lo scenario di 80 anni fa: nel ’43, quando cominciò la nostra Resistenza, Usa, Urss, Gran Bretagna e compagnia già combattevano da anni contro l’Asse, mentre oggi sia l’Unione europea sia la Nato dicono di non voler entrare in guerra contro la Russia (e forse la campagna interventista in corso mira in realtà a far cambiare loro idea, nonostante le conseguenze catastrofiche che ne deriverebbero, con una guerra estesa al resto d’Europa e l’uso di armi nucleari a quel punto più probabile che possibile).

Il paradosso è che proprio i principali eredi diretti della tradizione partigiana – ossia l’Anpi, la più grande organizzazione fondata dagli ex combattenti – hanno contestato il parallelismo 1943-2022 e considerano sbagliata la scelta di sostenere la resistenza armata in Ucraina con l’invio di armi. La questione resta fonte di discussioni infinite, discussioni che non raramente contengono in sé altri paradossi, se si pensa che non pochi dei convinti fautori della necessità di armare il governo e la popolazione ucraina sull’esempio della nostra Resistenza, sono gli stessi che della lotta partigiana hanno sempre parlato con sufficienza, minimizzandone sia l’importanza militare all’epoca, sia l’eredità politica e culturale a guerra finita, per non dire della poca popolarità di cui gode oggigiorno la nozione stessa di antifascismo. L’Anpi, come ha ben spiegato il presidente Gianfranco Pagliarulo, ha preso la sua posizione per precise ragioni politiche: compito dell’Italia e dell’Europa, ha detto e ripetuto, è favorire il cessate il fuoco, fermare sul nascere l’escalation del conflitto, promuovere una mediazione internazionale. L’Anpi, insomma, si richiama più agli esiti della Liberazione – il “ripudio” della guerra inserito nella Costituzione, la fondazione delle Nazioni Unite, il rigetto dei nazionalismi – che all’esperienza militare dei venti mesi passati alla macchia dai partigiani, il solo aspetto che invece sembra interessare gli odierni interventisti.

Ecco il punto. La Resistenza è stata un’esperienza umana e politica ben più larga, più profonda e anche più coinvolgente dei soli combattimenti, che pure furono il cuore della lotta partigiana, nata necessariamente – ricordiamolo ancora – nel corso di una guerra che volgeva ormai a favore degli eserciti Alleati, una guerra che ha provocato sul suolo europeo milioni di morti, da aggiungere ai milioni di ebrei, rom e avversari politici del nazismo inviati dalla Germania hitleriana alle camere a gas con la complicità dei suoi alleati.  Gli storici da tempo hanno messo a fuoco l’importanza delle varie forme di resistenza civile messe in campo nei venti mesi dell’occupazione tedesca dell’Italia: ci fu chi diede rifugio agli ebrei, chi a soldati alleati sbandati, chi disertò dagli ordini di arruolamento della Repubblica mussoliniana e chi nascose e protesse i disertori; ci furono i militari fatti prigionieri e inviati in Germania che rifiutarono, in grande maggioranza, di arruolarsi e tornare in Italia a combattere nei ranghi della repubblichina fascista; ci fu chi aiutò i partigiani, con cibo, ospitalità, informazioni, rendendo possibile l’esistenza delle bande; ci fu chi sabotò le forze di occupazione, chi non collaborò.

Ercole Ongaro, in un libro di qualche anno fa, Resistenza nonviolenta 1943-1945 (I libri di Emil, 2013), ha individuato dieci forme di Resistenza, sostenendo che la lotta armata fu “contingente”, legata cioè alle circostanze di guerra, e che la “memoria fertile” è l’altra, la resistenza civile, perché mette in primo piano il protagonismo dei cittadini, la loro capacità di lottare e  di opporsi all’oppressione e alla violenza senza introdurre sulla scena altra violenza. Fra le dieci forme di resistenza Ongaro ha incluso anche la nascita del Cln, il Comitato di liberazione nazionale, chiamato a svolgere un ruolo politico, a coordinare le iniziative, a concepire e gestire strategie più ampie, più complesse, più proiettate nel futuro della “semplice” lotta armata.

Pensiamoci. Forse oggi in Ucraina c’è bisogno proprio di questo: di intelligenza politica, di pensiero, di iniziativa diplomatica, di una regia internazionale che impedisca ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi: un imbarbarimento bellico che renderà sempre più difficile un’intesa diplomatica fra le parti;  un’escalation militare senza ritorno. Si prospetta una carneficina che va invece evitata: salvare vite  umane dev’essere un obiettivo primario; sale di giorno in giorno il numero delle vittime militari e civili di guerra, ma dovremmo avere imparato dalla storia che il compito precipuo in situazioni di crisi dev’essere la “conta dei salvati”, per riprendere il titolo del libro di Anna Bravo (Laterza, 2013) dedicato ai tanti che nel ’900 hanno “tramato per la pace” restando ingiustamente ai margini dei manuali di storia, ancora pieni di leader politici e militari descritti come strateghi ed eroi in combattimento, a dispetto delle macerie e dei cumuli di morti rimasti sul terreno.

Dell’esperienza della Resistenza, allora, è oggi necessario studiare e aggiornare le forme di azione e opposizione non armata e riprendere l’ispirazione che portò alla nascita del Cln, cioè la priorità da attribuire alla politica, alla diplomazia, rilanciando le Nazioni Unite e aprendo la strada a una Conferenza internazionale sulla sicurezza in Europa. Lo scomposto interventismo di questi giorni, l’informazione ossessivamente emozionale tracimante da tutti i media stanno depoliticizzando la guerra in Ucraina e così proseguendo continueranno a parlare solo le armi. Non è per questo modo antico e barbaro di “gestire” i conflitti e rispondere alle aggressioni militari che combatterono i nostri partigiani e agirono i nostri resistenti non armati; forse siamo ancora in tempo a fare tesoro della loro complessa esperienza e del loro prezioso insegnamento.

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