Editoriale

Palestina e Palestinesi nei testi scolastici israeliani

Il 9 giugno è uscita la seconda edizione di La Palestina nei testi scolastici di Israele. Nel libro l’accademica israeliana Nurit Peled-Elhanan analizza come, attraverso l’istruzione scolastica, viene costruita e rimarcata la propaganda anti-palestinese e la costruzione di un sentimento identitario e nazionalista.

Quello che segue è un estratto dal primo capitolo, La rappresentazione dei palestinesi nei testi scolastici israeliani.


La rappresentazione dei palestinesi nei testi scolastici israeliani

 

Israele non ha mai cercato di garantire pari cittadinanza agli arabi palestinesi e agli ebrei, né ha mai cercato il consenso dei cittadini arabi all’imposizione ideologica forzata di uno Stato ebraico.
O. Yiftachel, Ethnocracy, cit., p. 93

Non solo numerosi testi scolastici israeliani rifiutano la versione palestinese della storia e la tacciono ma spesso, come nota Podeh, manipolano il passato implicando l’uso di stereotipi e di pregiudizi nel descrivere l’«altro» (il palestinese); gli stereotipi servono al pregiudizio e favoriscono la delegittimazione, ossia la classificazione di gruppi mediante categorie sociali estremamente negative, le quali non vengono estese invece ai gruppi umani che si ritiene agiscano entro i limiti di norme e/o valori accettabili. Secondo quanto rilevato da Neta Oren e Bar-Tal, i mezzi comunemente usati nei manuali scolastici per operare la delegittimazione sono i seguenti: disumanizzazione, emarginazione, caratterizzazione tramite aspetti negativi, etichettature politiche e comparazione fra gruppi. Sia Podeh che Bar-Tal, però, si riferiscono soltanto alla delegittimazione verbale esplicita, realizzata soprattutto come valutazione, e trascurano quasi interamente altri strumenti retorici e visivi; nei capitoli che seguono ci concentreremo sul discorso visivo e sui congegni retorici.

Podeh e altri ricercatori ritengono le concezioni dominanti nei testi scolastici israeliani prevenute ed etnocentriche, e pertanto diverse dal razzismo. L’approccio sociocognitivo oggi adottato da numerosi studiosi di razzismo non distingue però fra etnicismo, razzismo e forme contigue di discriminazione, e considera tali concetti «indeterminati e sovrapponentisi fra loro». A parere di Reisigl e Wodak, «articolazioni ideologiche come razzismo, nazionalismo, sessismo ed etnicismo sconfinano l’una nell’altra, sono interconnesse e si accavallano», e mirano soprattutto «a tutelare gli interessi dell’in-group dominante». Tutti questi -ismi consolidano la delegittimazione dell’«altro» operando per esclusione e per classificazione, con cui si ottiene il controllo delle concezioni della realtà. A proposito dell’esclusione, rammento sin d’ora che nessuno dei manuali qui analizzati trasmette, né a livello verbale né a livello visivo, aspetti culturali o sociali positivi dell’esistenza palestinese: letteratura, poesia, storia, agricoltura, arte, architettura, costumi e tradizioni non vengono mai menzionati; nessuno dei testi contiene fotografie di individui palestinesi, che sono invece rappresentati mediante simboli razzisti o immagini che li classificano come terroristi, profughi, contadini primitivi, i tre «problemi» che essi costituiscono per Israele.

Classificazione dei palestinesi nei libri di testo israeliani

 

Come i sentieri nel bosco danno un ordine al nostro spazio vitale, così le categorie generano significati del mondo. Come quei sentieri, tendono a resistere al cambiamento.
G. Allport, La natura del pregiudizio

Si classificano gli individui o gli «attori sociali», spiega Van Leeuwen, «ogniqualvolta ci si riferisce agli attori tramite le principali categorie con cui una data società o istituzione distinguono fra gruppi di individui; le categorie sono quelle di età, genere, provenienza, classe, ricchezza, razza, etnia, religione, orientamento sessuale eccetera». Queste distinzioni servono a costruire quello che Teun Van Dijk chiama linguaggio dell’autorappresentazione e della rappresentazione dell’altro; di tale linguaggio i libri di testo israeliani manifestano uno degli aspetti salienti nella classificazione etnica, che distingue fra gli israeliani o ebrei e i «non-ebrei», ossia gli «arabi». Tipica del discorso razzista, questa dicotomia è stata sempre considerata dagli insegnanti israeliani «essenziale per mantenere una distinta identità ebraica israeliana e per sostenere la capacità di competere efficacemente con gli arabi». Come sostiene Allport, «è proprio della mentalità del pregiudizio produrre in ogni campo d’esperienza categorie monopolistiche, indifferenziate, a due valori e rigide».

La distinzione fra ebrei e non-ebrei concorre a stabilizzare l’in-group ebraico come gruppo non solo dominante ma maggiormente reale, in quanto dotato di un proprio nome distinto, e a emarginare e sottomettere i cittadini palestinesi in quanto out-group definito soltanto negativamente, come «non in-group». Nei capitoli successivi vedremo che la distinzione fra ebrei come in-group dominante e non-ebrei come out-group marginale della società israeliana pervade tutti i settori d’indagine; persino in ambiti estranei a questioni etniche o nazionali come quelli dell’industria, dell’agricoltura o delle professioni, i testi scolastici dividono il mondo israeliano su base etnica, separando «ebraico» da «non-ebraico» o «arabo», conformemente a quanto fa il discorso sociale e politico. Nei manuali di geografia questa divisione serve a connotare la differenza fra progresso e arretratezza, e illustra inoltre, tramite carte geografiche, grafici e diagrammi, l’incompletezza del progetto sionista di giudaizzazione della terra. Nel testo di geografia Settlements in Space (p. 59), ad esempio, una cartina delle aree rurali di Israele raffigura in blu gli insediamenti ebraici e in rosso i villaggi arabi; il testo in calce nomina i vari insediamenti ebraici come kibbutz, moshav, insediamento comunitario (ebraico) eccetera, e chiama invece i villaggi arabi solo indistintamente, come «arabi», nonostante in Israele ne esistano diversi tipi. Nei manuali di educazione civica, la locuzione «settore non-ebraico/arabo» indica la centralità dei cittadini ebrei e la marginalità della «minoranza» palestinese, mentre in quelli di storia connota direttamente la distinzione fra narrazioni giuste e sbagliate: quella ebraica è giusta, quella araba è sbagliata. In termini di modalità, le versioni israeliane dei fatti sono definite come oggettive, mentre quelle arabo-palestinesi sono indicate come eventualità, in aperture quali «Secondo la versione araba»; si danno due esempi, tratti da testi scolastici ritenuti dai ricercatori fra i più progressisti:

1) Nel settore arabo il massacro di Kfar Kassem è divenuto simbolo dei mali dell’oppressione (The 20th, p. 121).
2) Nella narrazione palestinese Deir Yassin è divenuto un mito […] e ha reso un’immagine terribilmente negativa del conquistatore ebreo agli occhi degli arabi israeliani (Naveh et al., pp. 112-113).

A quest’ultima affermazione segue la definizione per cui
il mito è una storia che assurge a significativo emblema per la vita di una nazione e che, basandosi sulla realtà, nello stesso tempo la distorce. Una narrazione [è] la storia del popolo così come il popolo la percepisce e la racconta.

Come vedremo, di solito i manuali di storia presentano le azioni israeliane come moralmente giuste e consone alle norme universali ed ebraiche, mentre le azioni palestinesi risultano strane o immorali: Israele «reagisce all’ostilità araba», compie «operazioni » in mezzo agli arabi e «azioni punitive deterrenti» contro il terrore palestinese; gli «arabi», invece, ammazzano gli israeliani, commettono azioni terroristiche contro Israele, si vendicano e usano in funzione di propaganda antisraeliana quella che chiamano la propria sofferenza.

Cosa racchiude un nome?

 

Le cose non hanno significato se non sono nominate.
G. Kress, Literacy, cit., p. 43

Come ha notato Firer, i testi scolastici non usano mai l’appellativo «palestinese» per indicare i Territori occupati palestinesi o i palestinesi stessi. Il discorso sociale, politico e pedagogico israeliano etichetta i cittadini palestinesi come «arabi israeliani» in accezione degradante. I palestinesi dei Territori occupati invece, oltre che «arabi», sono detti in ebraico alternativamente pales(h)tinaiim o palestinim, a seconda delle inclinazioni politiche del parlante o dello scrivente; solitamente a sinistra li chiamano palestinim o, secondo la pronuncia araba e come essi chiamano se stessi, filastini (che equivale a «palestinesi »); a destra li chiamano «arabi» o pales(h)tinaiim, più prossimo a filistei e traducibile con philistinians (traduzione che per l’innanzi preferirò a pales(h)tinaiim). I palestinesi provengono storicamente dalla Palestina, o – come la dicevano i romani – dalla Syria Palaestina: la terra dei filistei. «Palestina» era il nome usato dai greci, dai romani e quindi dagli europei, e quello ufficialmente usato dai britannici nel corso del Mandato sulla regione; indica non solo la porzione di Palestina odierna, ma l’intera terra della Siria meridionale, che costituiva la patria di tutti coloro che vi abitavano, ebrei inclusi; come spiega il professor Shimon Shamir, non solo gli arabi, ma anche gli ebrei che abitavano in Palestina erano chiamati pales(h)tinaiim. Era il caso, ad esempio, dei volontari dell’esercito britannico durante la Seconda guerra mondiale; e una volta la stessa Golda Meir affermò: «Anch’io sono Pales(h)tinaiim»; intendeva dire che la sua origine risaliva all’antica terra di Palestina e che la carta d’identità rilasciatale durante il Mandato britannico indicava come sua patria la Palestina. La soluzione dei due Stati, aggiunge Shamir, significherebbe così avere uno Stato ebraico – Israele – e uno Stato palestinese sulla terra di Palestina.

«Palestina» e «palestinesi» (Falastin e filastini secondo la pronuncia araba) sono i nomi che all’inizio del XX secolo il movimento nazionale palestinese ha scelto per la propria terra e la propria gente, distinguendosi così da come li etichettavano i britannici e da filistei ed ebrei, e sbarazzandosi da tutte le altre connotazioni di «Palestina».

Nonostante siano stati pubblicati successivamente agli accordi di Oslo, segnanti il reciproco riconoscimento fra Israele e l’Autorità nazionale palestinese, i manuali analizzati non hanno alcun riguardo per il nome di filastini che i palestinesi danno a se stessi. La maggior parte dei libri di sinistra li chiama alternativamente «arabi», «arabi d’Israele» e «palestinesi», mentre i libri di destra li chiamano «arabi», «arabi d’Israele» e, in rare occasioni, Pales(h)tinaiim, appellativo usualmente riservato ai terroristi. Il termine «arabi» rafforza l’idea che Israele ha sempre inteso trasmettere, che i palestinesi non costituiscono una nazione a sé ma fanno parte di un’altra più grande nazione, fuori d’Israele: quella degli arabi. Assomiglierebbero così agli ebrei israeliani, che pure appartengono al più grande popolo ebreo, risiedente in gran parte fuori da Israele. La sola differenza fra palestinesi ed ebrei israeliani, secondo la concezione israeliana, è che gli ebrei hanno un solo Stato – quello di Israele – mentre gli «arabi» possono stabilirsi in uno dei ventuno Stati a disposizione; perciò a ogni ebreo che viene in Israele è immediatamente concessa la cittadinanza, mentre ai palestinesi la cittadinanza può non essere concessa affatto.

Basata su tale percezione, la politica d’Israele è sempre stata quella di «incoraggiare» implicitamente ed esplicitamente i palestinesi ad abbandonare le proprie abitazioni per stabilirsi in altri Paesi arabi; al proposito, è significativa la dichiarazione resa da Livni quando ancora era ministro degli esteri:

La soluzione nazionale degli arabi d’Israele è altrove: per mantenere uno Stato ebraico-democratico dobbiamo costituire due Stati nazione con chiari confini. Solo in seguito potrò rivolgermi ai cittadini palestinesi di Israele, che chiamiamo arabi israeliani, per dire loro che la loro soluzione nazionale è altrove.
Haaretz, 10 dicembre 2008

È questa una delle rare occasioni in cui un dirigente di rilievo suggerisce di sostituire «arabi israeliani» con «cittadini palestinesi di Israele». La ragione di tale mutamento è comunque in linea con le vecchie intenzioni e i vecchi scopi; Livni usa l’appellativo «palestinesi» per lo stesso motivo per cui i testi scolastici usano quello di «arabi»: per indicare che costoro, sebbene cittadini dello Stato di Israele, non appartengono al luogo ove attualmente si trovano a vivere e a lavorare e dove hanno vissuto per generazioni. Ella ripropone la costante idea del loro trasferimento nel limitrofo (ancora non esistente) Stato di Palestina. Il suo discorso merita di essere citato perché Livni lo ha tenuto agli alunni delle scuole superiori di Tel Aviv alla vigilia del loro arruolamento nell’esercito.

La maggior parte dei manuali considerati riserva il termine «palestinesi» soprattutto ai terroristi. In Ahh si legge, ad esempio:

In Libano la calma non durò […] L’indipendenza del Libano fu messa nuovamente a repentaglio negli anni 1968-69, quando organizzazioni terroristiche palestinesi guidate dall’Olp si stabilirono nel Paese e di lì presero a compiere azioni contro Israele (p. 288).

Dopo la guerra del 1967 in Giordania aumentò la presenza di organizzazioni terroristiche palestinesi, che crearono uno Stato nello Stato. Senza il benestare della monarchia, partivano da quei territori per commettere atti terroristici nella valle del Giordano (p. 284).

Sia Face che 50 Years sottolineano il fatto che i profughi palestinesi causavano problemi e instabilità in ogni Paese in cui abitavano, come in Libano e in Giordania. In Face si trovano un intero sottocapitolo intitolato Il fattore palestinese minaccia l’integrità e l’unità del Libano (p. 138) e un sottocapitolo analogo riguardo alla Giordania (p. 382). In 50 Years i palestinesi non terroristi, chiamati «gli arabi dei Territori», sono menzionati unicamente in quanto manodopera a basso costo e minaccia per l’agricoltura israeliana, o «infiltrati» provenienti da Egitto e Giordania per compire azioni terroristiche in Israele – come avviene in un capitolo che termina con la fotografia di individui con la kefiah a bordo di un veicolo, armati e mascherati di tutto punto; è questa la sola fotografia di palestinesi nell’intero libro: collocata in basso al centro, a conclusione del resoconto, ha la seguente didascalia: Philistinians armati, di pattuglia per le strade di Amman durante il conflitto fra esercito giordano e Philistinians. In questi manuali, come in quelli del periodo che va dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, «i palestinesi – nota Firer – sono percepiti come fattore di costante accensione e intensificazione del conflitto».

Di norma, i palestinesi non terroristi sono chiamati «arabi»:

I Paesi arabi non accettarono le conseguenze della Guerra d’indipendenza [israeliana] e nonostante avessero sottoscritto un cessate il fuoco pretendevano che Israele si ritirasse entro le linee di spartizione e che reintroducesse i profughi arabi nelle loro case
Jip
, p. 309

Come risultato della sconfitta dei Paesi arabi, Israele annesse al suo territorio vaste aree in cui viveva un milione di arabi
Ahh
, p. 337

Solo là dove menziona gli accordi di pace fra Israele e l’Olp, Jip afferma esplicitamente che «Israele ha riconosciuto l’Olp come il solo rappresentante del popolo palestinese» (p. 332).

50 Years e Face, orientati a destra, utilizzano gli appellativi di Pales(h)tinaiim, ossia Philistinians, e di «arabi»; Naveh et al. e Domka et al., orientati a sinistra, utilizzano alternativamente «arabi» e «palestinesi». In Naveh et al. (pp. 142-143), nel sottocapitolo intitolato Ragioni della partenza degli arabi israeliani, «arabo» ricorre cinque volte e «palestinese» due volte, entrambi riferiti alla stessa popolazione; quando si menziona invece la Nakba, la logica è opposta: «palestinese» è usato quattro volte, «arabo» soltanto una. In Domka et al. (pp. 158-159) si registra una tendenza analoga: in riferimento alle «infiltrazioni» di profughi palestinesi che cercavano di tornare alle proprie case e ai propri campi nel 1953, in uno stesso paragrafo «arabo» ricorre tre volte e «palestinese» due.

Il manuale di educazione civica Being Citizens in Israel: a Jewish Democratic State dedica consistente «tempo carta» alle posizioni e agli avvenimenti palestinesi: riporta dettagliatamente gli atti di discriminazione contro cittadini palestinesi, chiama il conflitto «conflitto israelo-palestinese», e non «conflitto araboebraico» come è invece solitamente nominato, e a differenza della maggior parte degli altri libri cita il fatto che nel 1993 l’Olp ha cancellato dal proprio statuto le voci che chiedevano la distruzione di Israele e la negazione del suo diritto a esistere (p. 337). Tuttavia, questo manuale designa la Palestina preisraeliana con il termine di «Israele mandataria» e alterna casualmente «arabi» e «palestinesi», senza logica apparente, usando con molta più frequenza l’etichetta di «arabo». Un capitolo intitolato La divisione nazionale [in Israele] apre ad esempio con la seguente affermazione:

Per comprendere l’essenza della divisione nazionale è necessario conoscere le caratteristiche della società araba. […] Nel 1948 […] circa due milioni di persone vivevano in Israele mandataria (in Palestina, come la chiamano gli arabi). Due terzi di costoro erano arabi palestinesi e un terzo erano ebrei. […] In seguito a un’espulsione e a una fuga di massa degli arabi durante la guerra, entro i confini dello Stato d’Israele rimasero soltanto 160.000 arabi palestinesi, ossia il 10 per cento degli arabi palestinesi che vi avevano abitato sino ad allora (p. 279)

Da qui in avanti, il termine «palestinese» è raramente usato e i cittadini palestinesi sono chiamati «arabi», «minoranza araba» o «arabi d’Israele»; nelle due o tre pagine del capitolo in cui si incontra questo termine (pp. 279-280), esso occorre 4 volte, contro 25 occorrenze di «arabi» per designare cittadini palestinesi o profughi. In un paragrafo di 12 righe ho contato un’occorrenza di «palestinesi», quattro di «arabi» e due di «arabi d’Israele», riferiti tutti allo stesso gruppo di persone, o di «popolazione» o «settore», come sono indicate queste persone. Ne rende l’esempio la seguente frase:

In conseguenza alla trasformazione degli arabi di Israele in minoranza entro lo Stato che li assoggetta, la realtà che si è imposta su costoro li pone in una condizione che contrasta con quella del resto della loro gente palestinese, cosa che ne ha aumentato la coscienza politica eccetera (p. 281)

«Arabi» è spesso usato come generica etichetta per indicare tutti i nativi non-ebrei. Il manuale di geografia Israel: Man and Space elenca tutte le minoranze presenti in Israele; a p. 12 si legge, ad esempio:

Popolazione araba: questo insieme è composto di diversi gruppi religiosi ed etnici: musulmani, cristiani, drusi, beduini e circassi. Poiché la maggior parte di costoro è araba, a tale popolazione si farà riferimento come ad arabi.

Il libro riserva l’appellativo di «palestinesi» ai lavoratori stranieri sottopagati:

Alcuni dei lavoratori stranieri sono palestinesi provenienti dalle aree controllate dall’Autorità palestinese eccetera (p. 12).

L’idea che i palestinesi non appartengano ai luoghi dove vivono da secoli è rimarcata dalla presentazione delle aree dei palestinesi come aree «controllate dall’Autorità palestinese» invece che come loro terra d’origine, e altresì dalla presentazione della popolazione che ci vive in termini di «lavoratori stranieri».

L’unico testo che utilizza «palestinesi» regolarmente è quello che è stato proibito, Woc. Esso cita il conflitto come «conflitto sionista-palestinese» e la guerra del 1948 come «guerra civile » anziché come «guerra d’indipendenza»; è l’unico a dare al territorio preisraeliano il nome di «Palestina» con cui di fatto era chiamato, invece che attribuirgli quello di «Israele mandataria », utilizzato invece da altri manuali scolastici. Questo libro presenta inoltre i due lati avversari in maniera simmetrica e dà pressoché identico peso alle ragioni e rivendicazioni nazionali di entrambi (tale aspetto verrà discusso nel cap. III); è l’unico dei manuali analizzati che denomina i Territori occupati palestinesi «Cisgiordania» e non «Giudea e Samaria» o «Terra occidentale d’Israele», come fanno invece 50 Years e altri libri. Cita i villaggi palestinesi distrutti con i nomi originari e menziona persino la città cui fu dato il nome ebraico di Eilat nel 1948 con il nome arabo di Umm Rash-Rash, che essa portava a quel tempo.

Il presente studio condivide la posizione che non ritiene i segni come entità neutre ma come elementi legati a determinati interessi e ideologie. Tale mescolanza di appellativi vi appare dunque non solo come un prodotto della mancanza di rispetto per il nome che il popolo palestinese si è scelto, ma anche come segno del sentimento che non importa nulla come quel popolo chiami se stesso perché per «noi» non sono altro che arabi; questo sentimento, oltre a sostenere l’opinione che agli «arabi» non dovrebbe essere consentito il ritorno in Israele dopo che tanti ebrei sono stati espulsi da Paesi arabi quali il Marocco, l’Iraq e la Siria, appoggia gli argomenti usati nel discorso israeliano comune e politico per interdire il ritorno dei profughi palestinesi.


I titoli dei libri scolastici a cui fa riferimento l’autrice sono in forma abbreviata, e l’elenco esaustivo è raccolto nell’introduzione al volume. La riportiamo per maggiore comprensione:

  • The 20th Century (1998): The 20th
  • Modern Times II (1999): Mtii
  • World of Changes (2001): Woc
  • Journey into the Past (1999): Jip
  • The Age of Horror and Hope (2001): Ahh
  • 50 Years of Wars and Hopes (2004): 50 Years
  • The Face of the 20th (2006): Face
  • Being Citizens in Israel (2001): Bci
  • Nationality in Israel and the Nations: Building a State in the Middle East (2009): Naveh et al.
  • Nationality – Building a State in the Middle East (2009): Domka et al.

IL LIBRO

Copertina di La Palestina nei testi scolastici di Israele
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