Rosita Rijtano, in Insubordinati. Inchiesta sui rider, si è immersa nel multisfaccettato mondo dei ciclofattorini delle piattaforme di food delivery. Un lavoro duro, usurante e totalmente sottopagato. Dove le app e gli algoritmi decidono tutto, dagli ordini, alle tempistiche, al pagamento. Tutto.
Qui di seguito l’introduzione al volume, che dà il polso dell’immane lavoro d’inchiesta compiuto dall’autrice.
Premessa
C’è stato un prima, un dopo, e un tempo tra i due avverbi. Il prima non so quando sia iniziato né come, ma so bene perché e si può riassumere con una parola: pigrizia. Per pigrizia ho ordinato la prima cena tramite app e per pigrizia mi sono poi fatta portare a casa di tutto. Storcevo il naso se il rider mi chiedeva di raggiungerlo davanti al portone, controllavo compulsivamente la sua posizione, e chiamavo l’assistenza quando era in ritardo. Ero una cliente tra tante, forse più cattiva di tante. Nel frattempo Enrico correva da una parte all’altra della città, rischiando la vita per guadagnare pochi euro a consegna. Viveva quella che Francesco Silvestri, fattorino e studente di ingegneria gestionale, chiama «fatica da rider»: uno sforzo che logora tanto il fisico quanto la mente, atterrando il morale. In pochi sanno che il mestiere di rider non si limita al lavoro di gambe, c’è la pressione di dover rispettare determinati tempi, l’ansia di non perdere le notifiche di assegnazione delle consegne e la necessità di imparare nuove competenze, come la capacità di gestire le proprie emozioni: di sorridere anche quando non se ne ha voglia, salire in silenzio cinque piani di scale, e incassare ogni offesa senza ribattere, pena una recensione negativa che pesa sul salario. Dietro la mia indolenza c’era questo e molto altro, ma l’avrei scoperto solo dopo.
Prima che il sushi arrivi alla porta
Il dopo coincide con l’oggi e le piattaforme non hanno smesso di salvarmi la cena, anche perché sarebbe un disastro per l’economia. Farei un torto pure a Francesco che ammette di aver pagato tutti gli studi con le consegne e aggiunge: «Non vorrei mai che la gente smettesse di ordinare a domicilio, ma che fosse più consapevole sì». Sono diventata più consapevole: uso certe app e non altre, raggiungo il corriere in strada, do spesso la mancia, evito le recensioni. Non basta, ma è qualcosa. La consapevolezza mi è costata un anno di tempo. È il tempo di mezzo che sta tra il prima e il dopo, quello che ho passato a inseguire Enrico nel suo lavoro quotidiano, senza mai riuscire a stargli dietro. È il solo tempo che valga la pena di essere raccontato e che questo libro racconta. Queste pagine si basano su decine di testimonianze dirette, inchieste giudiziarie e giornalistiche, documenti governativi ed europei, ricerche accademiche, per descrivere tutto quello che succede prima che il sushi arrivi alla porta. Lo sfruttamento che permette a Gorillas, azienda che consegna generi alimentari, di fare pubblicità come questa: «La spesa quando piove sarà un ricordo lontano. Quello che ti serve consegnato in un attimo con Gorillas app».
Dare voce ai rider
Il tentativo è dare voce ai rider: entità pirandelliane, dai mille volti e dalle altrettante esigenze, per quanto gli analisti si sforzino di ingabbiarli nelle statistiche. Una categoria di lavoratori che, come racconto nel primo capitolo, rimane afona: non sappiamo quanti siano esattamente i corrieri impiegati nella gigantesca industria del food delivery né conosciamo il loro profilo. Tutto quello che al momento riusciamo ad avere è un’idea di massima e non basta, soprattutto se è necessario contrastare l’agguerrita propaganda delle aziende. Una tattica che segue principi goebbelsiani: ripetere una bugia migliaia di volte fino a farla diventare una verità, almeno apparente. Ed ecco che sin dall’inizio le piattaforme si sono impegnate a trasmettere due messaggi. Hanno detto a noi clienti che i rider sono tutti studenti. Hanno detto ai rider che offrono un lavoro davvero cool, dove ognuno è imprenditore di sé stesso. Ma la realtà non combacia con la propaganda, come si vedrà nei capitoli due e tre. Il racconto inizia e finisce a Torino e non poteva essere altrimenti. Torino non è più da tempo una città-fabbrica, ma la fabbrica è ancora parte materiale e immateriale della città, una parte in lenta e dolorosa dismissione. E nell’ex impero fordista d’Italia sembra ancor più chiaro che altrove un fatto: i fattorini su due ruote sono espressione dell’evoluzione del capitalismo. È una storia che inizia negli anni Novanta e che a Torino conoscono bene. Sono gli anni di quella che il sociologo Marco Revelli ha definito la «globalizzazione stracciona della Fiat»: la produzione viene spezzettata in mille parti e affidata a ditte esterne, magari all’estero, magari nei Paesi dell’Est, dove la manodopera costa meno e nessuno rivendica un accidenti di diritto. Un processo che marcia veloce a suon di esuberi, fino a oggi, all’atomizzazione estrema. Il lavoro parcellizzato in singole prestazioni: la trascrizione di un audio, la compilazione di un questionario, la scrittura di un testo, la consegna di un singolo pasto. I rider, Enrico. A Torino vivono anche molti protagonisti dell’inchiesta che ha portato in tribunale i manager di una delle principali aziende del settore, Uber. L’accusa di caporalato sa di vecchio e demolisce le promesse della nuova economia digitale: di un mondo in cui tutti avrebbero avuto una chance. Sempre a Torino possiamo far cominciare il processo che sta portando questa ultima incarnazione del lumpenproletariat ad acquisire una coscienza di classe e, prima ancora, a percepirsi come lavoratrice. È a Torino che i rider hanno organizzato il primo sciopero di cui si ha notizia, e forse non è un caso.
Una storia di oppressori e oppressi
Trovare analogie con il mondo operaio, con quella umanità raccontata da Nanni Balestrini in Vogliamo tutto, è stato istintivo, immediato. Ridotta all’essenziale, la storia è sempre quella: una storia di oppressori e oppressi. Enrico, con la sua solita ironia, dice che tutto il libro poteva essere sintetizzato così: scrivendo in ogni pagina un solo aggettivo, in maiuscolo e a caratteri cubitali: «Cattivoni». Ma fermarsi alle somiglianze sarebbe sbagliato e non solo perché la composizione della forza lavoro è troppo eterogenea. La tecnologia permette gradi di controllo nuovi e mai così invasivi. Le aziende collezionano migliaia di dati sulle prestazioni dei rider, monitorandoli pedalata dopo pedalata. Dati che finiscono in pasto a dei software responsabili di decisioni automatiche e importanti per la vita dei fattorini. Una questione che non riguarda solo i rider, anzi. Come riassume bene l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando:
«il lavoratore digitale tra poco non sarà più legato unicamente alle piattaforme. Stiamo già vedendo come questo modello si sta espandendo in settori più tradizionali dell’economia»
Maurilio Pirone, ricercatore dell’Università di Bologna ed ex ciclofattorino, a ragione crede che possiamo considerare i rider il grande banco di prova delle modalità di lavoro del futuro, per loro già presente. Da come sarà regolata, o non regolata, la loro attività dipende il domani di tutti noi.