Editoriale

Cosa succede nella magistratura?

Cosa succede nella magistratura?

Come se già non fosse abbastanza quello che sta succedendo nel mondo, fra pandemie e rabbia sociale, in Italia è tornato alla ribalta anche il caso-giustizia, fra intercettazioni e CSM in subbuglio.

Abbiamo chiesto al nostro direttore editoriale Livio Pepino – che è stato anche magistrato e consigliere al Consiglio Superiore della Magistratura – di condividere con noi una riflessione per capire meglio quel che sta succedendo nel mondo della giustizia.


Che succede in magistratura?

di Livio Pepino

Le intercettazioni ambientali effettuate un anno fa mediante il trojan installato sul telefono dell’ex presidente dell’Associazione magistrati Luca Palamara (e rese note a puntate nei mesi successivi) hanno rivelato uno spaccato di rapporti a dir poco inquietante. Prima gli indecenti incontri segreti dello stesso Palamara e di alcuni componenti del Consiglio superiore con i parlamentari Luca Lotti (autorevole ex ministro del Pd) e Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa, già segretario della corrente più conservatrice dei magistrati, approdato dapprima al Governo in quota Berlusconi e poi in Parlamento nelle fila del Partito democratico, prima di transitare nelle truppe di Italia viva) per condizionare, tra l’altro, le nomine dei Procuratori della Repubblica di Roma e Perugia. Poi un reticolo impressionante di raccomandazioni, pressioni e favori trasversali di magistrati noti e/o sconosciuti in tema di nomine o trasferimenti propri o di propri congiunti, una prassi di rapporti spregiudicati di pubblici ministeri con giornalisti delle più importanti testate e molto altro ancora. A margine, per non farsi mancare nulla, allegre comparsate televisive di pubblici ministeri di primo piano (ultimo, ma non unico, il pubblico ministero e ora componente del Csm Nino Di Matteo) per lamentare la mancata attribuzione di incarichi politici e amministrativi.
Che la magistratura ne esca con le ossa rotte e con un indice di fiducia dei cittadini ridotto al lumicino è naturale. Intendiamoci, quella emersa è una parte soltanto del “pianeta giustizia” nel quale operano ottimi giudici e pubblici ministeri, come del resto è accaduto anche nei tempi più bui della nostra storia. Ma la loro presenza, fondamentale per la tenuta delle libertà e dei diritti, non è (più) il portato di una cultura egemone nel corpo giudiziario, dove ritornano, al contrario, idee, prassi e metodi che hanno caratterizzato la magistratura prima del “risveglio costituzionale” degli anni Sessanta e Settanta.

Che la magistratura ne esca con le ossa rotte e con un indice di fiducia dei cittadini ridotto al lumicino è naturale

A fronte di ciò, mentre editorialisti e politici di ogni colore tuonano contro le correnti della magistratura, si è aperta la fase degli interventi per “riformare” e “moralizzare” la giustizia ed è prossima la discussione parlamentare su molteplici proposte formulate dal guardasigilli e da diverse forze politiche, comprensive di profonde modifiche in tema di composizione del Csm e della sua sezione disciplinare, sistema elettorale dello stesso Consiglio (con sorteggi, ballottaggi e quant’altro), incompatibilità tra incarichi politici e (successivo) esercizio di funzioni giudiziarie, separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, criteri di priorità nella trattazione degli affari giudiziari e finanche abbandono del principio di obbligatorietà dell’azione penale. L’impressione è che la, pur necessaria (e, anzi, tardiva) “ricostruzione annunciata” si stia trasformando in un mix di polverone mediatico, cambiamento gattopardesco e occasione per un regolamento di conti (da tempo atteso) con l’indipendente esercizio della giurisdizione destinato a lasciare inalterati, o addirittura ad aggravare i fenomeni degenerativi emersi nel corpo giudiziario.

I fenomeni degenerativi

Esaminiamo, dunque, i più rilevanti tra questi fenomeni.
Primo. Il sistema del conferimento degli incarichi direttivi di tribunali e procure e delle nomine in genere è viziato da prassi clientelari e da metodi che nulla hanno a che fare con la razionalità e le capacità degli aspiranti: eliminato, nelle nomine, il criterio della anzianità e senza la definizione di altri criteri oggettivi e controllabili, il cosiddetto merito, in mancanza di un rigore morale e politico diffuso, è stato ed è spesso confuso con l’amicizia, la vicinanza, lo scambio di favori.

Secondo. Il rapporto tra politica e magistratura si è trasformato negli anni ed è sempre più inquinato da scambi e interessi. L’occupazione degli uffici del Ministero della giustizia da parte di magistrati chiamati ad personam da ministri e sottosegretari e l’attribuzione di incarichi di diretta connotazione politica (magari preceduti da trattative, assai poco commendevoli anche quando non andate buon fine) creano un sistema di rapporti tanto vischioso quanto privo di valide ragioni, non essendo dato vedere perché il capo di gabinetto di un ministro o il capo dell’Amministrazione penitenziaria debba essere un giudice o un pubblico ministero (che per lo più nulla sa di amministrazione e che del carcere non conosce altro che le sale destinate a interrogatori).

Terzo. Il sistema del reclutamento dei magistrati adottato con le riforme Castelli e Mastella, strutturato attraverso un concorso di secondo grado riservato a laureati con specializzazioni successive o provenienti da pubbliche amministrazioni, ha prodotto una marcata selezione per censo, l’innalzamento del livello medio dell’età dei vincitori del concorso, l’esclusione di alcuni dei candidati più brillanti e motivati, l’incremento della connotazione burocratica dei nuovi magistrati: in una parola, una profonda trasformazione sociologica (se non addirittura antropologica) del corpo giudiziario.

A ben guardare molta parte di questi fenomeni sono omogenei con quelli che caratterizzano la nostra pubblica amministrazione nel suo insieme: basti pensare alle nomine di questori e prefetti o dei direttori delle Asl, per non parlare dei responsabili delle reti televisive e degli enti pubblici economici (dove il prevalere dei meriti politici su quelli professionali non è certo l’eccezione). Per altro verso, le proposte di “riforma” sul tappeto sono per lo più ispirate a un passato precostituzionale nel quale – è bene ricordarlo – le pratiche oggi deprecate erano regola: basti riandare alla legge n. 438 del 1908 (grida manzoniana che vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera) o, cinquant’anni dopo, al Diario di un giudice di Dante Troisi, pubblicato nel 1955 da Einaudi, che portò al suo autore un grande successo letterario e… una censura disciplinare.

Che fare, dunque?

Partire dalla presa d’atto che i fenomeni degenerativi in atto nella magistratura possono essere contrastati solo con scelte e comportamenti coerenti. Da sempre, in ogni ambito, il malcostume e la burocratizzazione si contrastano evitando le coperture corporative e contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. C’è dunque, anzitutto, da ridisegnare un modello di magistratura su cui chiamare al confronto la cultura politica e giuridica. Un modello, contrapposto a quello funzionariale, fondato sulla effettiva pari dignità delle funzioni, sulla rigorosa temporaneità degli incarichi direttivi (privati di molti degli attuali poteri amministrativi), sulla separazione netta tra amministrazione e giurisdizione, su una rigorosa cultura della sottoposizione di giudici e pubblici ministeri soltanto alla legge (che significa «disobbedienza a tutto ciò che legge non è, in particolare al pasoliniano “palazzo”»). È un’operazione impegnativa e di lungo periodo ma non ci sono alternative. Solo così, infatti, è possibile uscire dalle secche del pensiero dominante dando agli stessi magistrati prospettive diverse dalla pura gestione dell’esistente, dalla primazia degli orizzonti di carriera, dalle logiche amicali, clientelari e subalterne al quadro politico.

Lo dico in maniera un po’ brutale: il problema non sono le correnti – come (quasi) tutti, a destra e a sinistra, si affannano a dire – ma la loro intervenuta trasformazione in un unico indistinto correntone. La cultura della giustizia e del suo governo autonomo che ha segnato positivamente gli ultimi decenni del secolo scorso si è progressivamente attenuata sin quasi a scomparire, lasciando il posto a un marcato consociativismo. Senza un recupero di quella cultura critica – di cui alcune correnti sono state portatrici – e di prassi conseguenti non si uscirà dal pantano e le “riforme” in cantiere diminuiranno probabilmente l’indipendenza e l’autonomia di giudici e pubblici ministeri ma non elimineranno degenerazioni burocratiche e rapporti impropri con poteri forti.


 

Per approfondire

Livio Pepino per noi ha scritto varie volte sul tema della giustizia e della legge. Consigliamo:

Livio Pepino e Nello Rossi, Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo, 2019
Livio pepino, Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli, 2015

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