Editoriale

Se puoi evadere il fisco, fallo!

Un uomo intasca del denaro dentro la giacca

L’Italia è il Paese dei condoni: il sistema tributario sembra costruito apposta per salvaguardare chi compie reati come la bancarotta fraudolenta o l’evasione fiscale. Per evitare di inimicarsi un sistema di potere che garantisce donazioni e appoggio, la politica si è spesso disinteressata a questo genere di reati – i crimini dei colletti bianchi – contribuendo a creare un generale clima d’impunibilità: se puoi evadere fallo. Poi al massimo si condona. Sempre se ti beccano.

Questo, ovviamente, vale soprattutto se sei una persona ricca.

In questi giorni fanno notizia le indagini nei confronti di una ministra della Repubblica, accusata di bancarotta fraudolenta, evasione fiscale e molto altro. La giustizia, ovviamente, deve fare il suo corso, ma è innegabile che l’Italia sia un Paese dove evadere le tasse sia non solo facile, ma addirittura auspicabile: il “ladro” è sempre lo Stato, e se riesci a fregarlo sei solo più furbo. Anzi, un furbetto.

A nulla vale porre l’accento sul fatto che chi evade si stia appropriando di denaro che dovrebbe servire a pagare la Cosa pubblica, i servizi, la sanità, la giustizia e tutto quello che rende uno Stato efficiente.

Nel 2020 abbiamo pubblicato Anche i ricchi rubano, della magistrata Elisa Pazé. Nel libro l’autrice spiega come funziona l’evasione fiscale e quanto sia forte l’impatto dei crimini dei ricchi sull’intera società e sul pianeta (basti pensare agli industriali che si disinteressano delle regolamentazioni sull’inquinamento). Malgrado la gravità di questi crimini, Elisa Pazé ci racconta che spesso i colpevoli rimangono impuniti.

Pubblichiamo un estratto del libro, dal capitolo I furti dei ricchi.

I ladri poveri sono ladri perché sono poveri. I ladri ricchi sono ricchi perché sono ladri.

Pino Caruso

Rubare allo Stato: l’evasione fiscale

Quando si parla di tasse si sovrappongono spesso due problemi diversi: la mancanza di un equo sistema tributario e l’evasione. La lotta a quest’ultima dovrebbe prescindere dalle politiche fiscali dei governi, perché chi non paga le tasse inceppa il funzionamento della macchina statale, ma così non è, e anzi, ad attaccare lo “Stato ladrone” per giustificare il fatto che ampi strati della popolazione sono sconosciuti al fisco, sono in prima fila, coerentemente con le proprie convenienze elettorali, alcuni partiti.

Eppure la storia del sistema tributario è la storia dell’affermarsi della civiltà. In un passato nemmeno troppo lontano la pressione fiscale era quantitativamente inferiore, perché le tasse servivano essenzialmente a mantenere il sovrano e a pagare l’esercito, e si appuntava su indici di reddito facili da individuare, come lo scambio delle merci. Nell’odierno Stato sociale le imposte sono molto aumentate, per sostenere i costi della sanità, dei servizi sociali, del sistema scolastico, della giustizia, dei trasporti e via enumerando. Dovrebbero servire anche a redistribuire un po’ di ricchezza, facendo pagare di più chi ha di più e di meno chi ha di meno, secondo il principio di progressività sancito nella Costituzione, e come ha recentemente ricordato persino il papa: «La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso».

Ma, da noi, manca una cultura della legalità. La conseguenza è che siamo uno dei Paesi europei con il più alto tasso di evasione fiscale e nessuno si sente un delinquente, ma al massimo un “furbetto”, mentre è opinione diffusa che a rubare sia lo Stato, togliendo ai cittadini onesti il frutto del lavoro.

In realtà, l’evasione andrebbe considerata a tutti gli effetti un furto. O meglio, a volere utilizzare le categorie giuridiche, una sorta di insolvenza fraudolenta: non si portano via dei soldi o dei beni a qualcuno, ma si usufruisce di beni e servizi senza pagare il dovuto. Un cittadino finge di essere nullatenente, non presentando la dichiarazione dei redditi, oppure la presenta inveritiera, denunciando solo una parte di ciò che ha guadagnato; però riceve dallo Stato delle prestazioni senza contribuire a sostenere i relativi costi. L’evasione di un prelievo fiscale come l’Iva, poi, potrebbe essere equiparata anche all’appropriazione indebita. Com’è noto, l’Iva (acronimo di imposta sul valore aggiunto) è l’imposta che colpisce la cessione di beni o la prestazione di servizi e ricade interamente sul consumatore finale, mentre gli imprenditori nei passaggi intermedi sono dei semplici “esattori”, che la riscuotono dall’acquirente per poi versarla allo Stato (salva la detrazione che a loro volta hanno pagato per gli acquisti): chi non la versa si appropria perciò di soldi altrui, di cui ha solo temporaneamente il possesso.

Malgrado questa evidente assimilabilità dei reati fiscali a quelli di insolvenza fraudolenta e appropriazione indebita, il nostro Stato prevede per chi li commette un trattamento sanzionatorio molto diverso. Se dopo avere mangiato in un ristorante me ne vado senza pagare, o se do dei soldi a un amico perché mi compri un gelato e lui acquista delle sigarette per sé, sono perseguibile anche se si tratta di cinque euro. Invece molti degli illeciti tributari assumono rilievo penale solo se l’imposta evasa supera determinati importi; ad esempio, chi non presenta la dichiarazione dei redditi viene incriminato unicamente se l’imposta dovuta supera i 50.000 euro, che corrisponde a un reddito imponibile di più del doppio. Non è che chi evade 49.000 euro si comporti bene, ma si è fatta la scelta di reprimere penalmente solo le condotte che provocano un danno di una certa consistenza per l’Erario. Così a partire dal 2000, cancellando la legge precedente del 1982, battezzata “manette agli evasori”, che in nome della trasparenza fiscale incriminava anche le irregolarità formali, sono state introdotte per gran parte dei reati delle soglie di punibilità (che hanno subito nel tempo diverse oscillazioni, al rialzo o al ribasso), con la sola eccezione dei comportamenti più insidiosi, come l’emissione o l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e la distruzione di documenti contabili.

Per alcuni reati, poi, non è sufficiente neppure il superamento della soglia di punibilità. Ad esempio, il delitto di dichiarazione fraudolenta commessa con operazioni simulate o documenti falsi è perseguibile, pur quando l’evasione di imposta è superiore a 30.000 euro, solo se «l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione o, comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila». Sembra una barzelletta, invece è la norma con cui l’Agenzia delle entrate, la Guardia di finanza e i magistrati si trovano quotidianamente a confrontarsi.

Per la verità, a essere scritte male non sono solo le norme incriminatrici. Anche quelle tributarie spesso non brillano per chiarezza. Ma il contribuente facoltoso non ha ragione di preoccuparsi: può far valere il principio che non sono punibili «le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione». Per nessun’altra branca del diritto penale è stato espressamente stabilito che, se le leggi sono ambigue e si sbaglia nell’interpretarle (o ci si giova della loro ambiguità per eluderle), la violazione non è perseguibile, bastando la previsione già contenuta nel codice in via generale, che l’ignoranza inevitabile sulla legge penale scusa.

A ridurre ulteriormente l’area dell’intervento penale c’è poi la non punibilità del tentativo per i reati di dichiarazione fraudolenta, con utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o con altri artifizi. Quindi se un imprenditore viene trovato, pochi giorni prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, con fatture che attestano prestazioni fittizie, non ha commesso alcun illecito.

Sono tutte manifestazioni di impotenza del sistema, ma anche di volontà politica di riservare all’evasione un trattamento di favore (siamo il Paese dei condoni), come è evidente sul fronte investigativo. Solo in Italia si invoca la riservatezza per proteggere i contribuenti disonesti e si addita l’Agenzia delle entrate come una sorta di Grande Fratello di orwelliana memoria, che spia i cittadini controllando come spendono i loro soldi.

Questo atteggiamento rende vieppiù complicata la repressione dei reati tributari, che già di per sé sono di arduo accertamento. Molti degli espedienti cui si ricorre per frodare il fisco sono grossolani e facilmente accertabili, come le fatture materialmente false per le quali non si trova quella corrispondente di acquisto o di vendita, ma per altri le indagini sono in salita. Ad esempio, quando si indicano in detrazione nella dichiarazione dei redditi spese per finte consulenze, se entrambe le parti interessate sono concordi nel mentire, è difficile dimostrare che una consulenza non è mai stata effettuata. I soldi ricevuti in nero poi si possono nascondere nelle cassette di sicurezza, anziché depositarli in conti correnti. E va ancora peggio quando vengono costituite all’estero società di comodo, specie se insediate in Paesi poco collaborativi.

In ogni caso, le probabilità di essere controllati sono talmente basse, per lo scarso personale a disposizione, che non pagare le tasse conviene sempre.

IL LIBRO

Anche i ricchi rubano
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