Editoriale

I come Ingiustizia discorsiva e Inclusione | Estratto da ‘Trovare le parole’, di Federico Faloppa e Vera Gheno

Gheno Faloppa I come ingiustizia discorsiva e inclusione

Perché in un contesto cis-etero-patriarcale come il nostro, le parole delle donne e delle identità marginalizzate sembrano avere meno peso?

Ne parlano Vera Gheno e Federico Faloppa in questo estratto da Trovare le parole nel capitolo I come Ingiustizia discorsiva e Inclusione.


I come Ingiustizia discorsiva e Inclusione

 

Claudia Bianchi, in apertura al primo capitolo del suo libro dedicato ai discorsi d’odio, cita un brano da Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen nel quale Elizabeth, la protagonista, tenta in tutti i modi di convincere il cugino, il signor Collins, di non volerlo sposare, e che il suo disinteresse è reale. Il signor Collins, per diverse pagine, continua a sorridere alle schermaglie di Elizabeth, minimizzando le argomentazioni della giovane come capricci rituali tipici delle signorine beneducate, che rifiutano la mano del corteggiatore almeno un paio di volte prima di acconsentire alle nozze, solo per vezzo. Lizzie cerca di convincerlo che no, davvero non è interessata alla mano di lui (tenta di friendzonarlo, direbbero i più giovani), e a un certo momento sbotta: «Vorrei piuttosto che mi si facesse il complimento di essere ritenuta sincera»; un modo educato, in linea con i costumi del tempo e con quello che una donna poteva dire, per chiedere di venire creduta. Invano: Collins rimane convinto che Lizzie stia solo “facendo la difficile”, ma che segretamente non desideri altro che sposarlo.

Ogni rilettura del passo citato irrita, frustra, costringe a chiedersi come mai le parole di Elizabeth non riescano a ottenere il risultato voluto; non è un problema di contenuto, che è chiarissimo, né di forma, altrettanto chiara. No, il problema è un altro: qualunque cosa dicesse Elizabeth, le sue parole non avrebbero il potere necessario. La donna, spiega Bianchi, è vittima di ingiustizia discorsiva:

«L’appartenenza a un gruppo sociale discriminato (per genere, in questo caso) sembra distorcere e a volte annullare la possibilità di agire efficacemente con le proprie parole».

Accade che alcuni soggetti, a causa di una loro caratteristica come il genere, l’etnia, la classe sociale, la disabilità etc., vengano automaticamente ritenuti meno competenti (in tal caso vittime di ingiustizia epistemica); pertanto, tali individui vengono considerati anche meno capaci di trasmettere la conoscenza e, al contempo, alle loro parole viene dato meno peso, per cui essi vengono limitati anche nella loro capacità di fare cose con le parole, di compiere atti “felici”. In molti casi, le loro parole non verranno credute; spesso saranno distorte (come è successo a Elizabeth); in casi estremi tali persone potranno addirittura non venire sentite, oppure essere ridotte al silenzio e completamente private della parola.

Quando si parla di discorsi d’odio, è importante tenere presente l’esistenza dell’ingiustizia discorsiva e del suo potere distorcente: ci potrebbero essere persone vittime di odio che non riescono a far sentire la loro voce di protesta perché appartenenti a determinate categorie, e per questa appartenenza i loro atti linguistici finiscono depotenziati. Per esempio, numerose donne si lamentano di essere vittime di catcalling, ossia di venire apostrofate con epiteti di ogni genere per strada; ma nella maggior parte dei casi le loro lamentele vengono minimizzate: «cosa vuoi che sia», «lo fanno per ridere», «e fattela una risata», «ringrazia che qualcuno ti fa i complimenti». Eppure, essere oggetto di attenzioni indesiderate per strada è tutt’altro che piacevole, soprattutto se tali molestie sono ripetute.

Chi lavora per l’inclusività ritiene che sia importante pensare sempre di più a una società in cui non ci siano persone vittime di ingiustizia discorsiva, ma che tuttə possano avere una voce udibile, tuttə possano far presenti i propri malesseri. Inclusività è un termine abbastanza giovane, che noi mutuiamo dall’inglese inclusivity. Il suo significato, secondo lo Zingarelli 2021, che al momento lo registra come sottolemma di inclusivo, è «capacità di includere, di accogliere, di non discriminare». Il concetto è rivolto a ogni diversità, a tuttə coloro che fino a poco tempo fa erano consideratə devianti rispetto a una certa idea di normalità: donne, omosessuali, transgender, troppo giovani e troppo anziani, persone di altre etnie e religioni, persone con disabilità, neuroatipici. L’idea alla base del concetto di inclusività è che, visto che il mondo del presente ci mette a contatto molto più di prima con le diversità, occorre che la società prenda atto di questa complessificazione e impari a gestirla in maniera equa.

Tuttavia, qui sorge una questione riguardante l’uso della parola inclusione: diversi studiosi, tra cui Fabrizio Acanfora, ritengono che il termine non sia adatto a rappresentare l’intento: esso, infatti, presume che ci sia qualcuno che include e qualcuno che viene incluso; in altre parole, ripropone una disparità tra i due gruppi: i «normali» che includono, con paternalistica generosità, e i «devianti» che vengono inclusi. Non viene rimossa, dunque, la cornice narrativa di una società normocentrica: è all’incirca lo stesso limite che rilevava Pasolini nell’impiego del termine tolleranza, che similmente presume qualcuno che tollera, ma non per forza accetta, né tantomeno ritiene proprio pari, qualcun altro diverso da sé.

Dunque, argomenta Acanfora, che termine usare? La sua proposta è di sostituire inclusione e inclusività con convivenza delle differenze; non con le differenze, che continuerebbe a far pensare a qualcuno di normale che convive con i differenti, ma delle differenze, a rimarcare che, cambiando prospettiva e mettendoci nei panni dell’altro, possiamo scoprire di essere differenti agli occhi di un altro, quanto questo lo è ai nostri occhi. O forse, riflette l’autore, bisognerebbe andare ancora oltre, e pensare a ogni essere umano come unico: magari la vera frontiera è la convivenza delle unicità. Altre persone, invece che linguaggio inclusivo, preferiscono usare linguaggio ampio.

Tutto questo non è un mero esercizio nomenclatorio: si tratta di iniziare a pensare alle diversità presenti nella nostra società in modo nuovo, aprendosi all’altro prima di tutto con l’ascolto, come abbiamo già visto, ma tentando, al contempo, anche di cambiare mentalità e rigettare l’idea di una società tarata sui “normali”, quali che essi siano.


Foto di copertina di Suzy Hazelwood, licenza Creative Commons

IL LIBRO

copertina di Trovare le parole, di Federico Faloppa e Vera Gheno
Back to list