Se è vero che le tasse sono troppo alte, è false che lo siano per tutti.
Francesco Pallante, costituzionalista ed esperto di legislazione tributaria, lo dice molto chiaramente: la nostra Costituzione è improntata sulla progressività della tassazione. Questo significa che chi ha meno deve pagare meno, e chi ha di più deve contribuire in misura maggiore. Tutto il contrario della flat tax, che vorrebbe un trattamento uguale fra persone con redditi di ordini di grandezza completamente diversi.
In questo estratto dal settimo capitolo di Elogio delle tasse, Pallante spiega cos’è la progressività fiscale e perché la flat tax, che sembra tanto democratica, in realtà è profondamente ingiusta.
Elogio delle tasse, capitolo VII: La minestra e la poltrona
Saper distinguere, in questa materia, è fondamentale. Anche se in misura differente, tutti siamo soggetti all’imposizione fiscale e tutti possiamo, soggettivamente, nutrire motivi d’insoddisfazione. Formulare un giudizio politico sull’assetto del sistema tributario richiede, però, la capacità di considerarlo nel suo insieme, scriminando le rivendicazioni dettate da calcoli di egoismo individuale da quelle animate da aspirazioni di giustizia sociale. Occorre, in particolare, evitare di cadere nella trappola, tesa dagli antistatalisti d’ogni tempo, che vorrebbe ridurre la lotta contro le tasse ingiuste alla lotta contro le tasse tout court. Emblematico è l’atteggiamento di chi afferma: «le tasse sono troppo alte, bisogna ridurle». È un’affermazione subdola, nel contempo vera e falsa: perché se è vero che le tasse sono troppo alte, è falso che lo siano per tutti. In verità, come abbiamo visto nelle pagine iniziali, per i più benestanti la pressione fiscale si è, negli ultimi decenni, alleggerita oltre ogni ragionevolezza e, se ciò è potuto accadere, è proprio perché il peso del sistema è stato spostato in misura oppressiva sulle classi sociali inferiori.
Non siamo tutti “contribuenti vessati”
Denunciare, indistintamente, la pressione fiscale come eccessiva ha esattamente questo scopo: mescolare i ricchi, la classe media e i poveri in un’unica categoria – quella del contribuente vessato –, attribuendo valore generale a un problema particolare, in modo tale che anche chi non ne è colpito possa comunque approfittare della sua eventuale soluzione. Il risultato, per la gran parte dei contribuenti, sarebbe comunque negativo: perché se anche le tasse fossero ridotte, lo sarebbero tanto a loro, quanto ai più ricchi, facendo così venir meno le risorse necessarie all’attuazione dei diritti costituzionali. Ma, mentre i ricchi potrebbero comunque soddisfare i propri bisogni acquistando sul mercato i beni e i servizi loro necessari, per tutti gli altri diverrebbe complicatissimo, e in molti casi impossibile, far fronte all’insieme delle esigenze della vita: basti pensare ai costi elevatissimi delle prestazioni sanitarie. Ecco perché le concrete modalità di strutturazione del sistema tributario rivestono un’importanza decisiva.
Quanto vale l’ultima fetta di torta?
È a Luigi Einaudi che possiamo utilmente appoggiarci volendone discutere, in particolare facendo riferimento alle sue Lezioni di politica sociale – corso universitario destinato agli studenti rifugiatisi in Svizzera nel 1944: il frangente storico in cui iniziavano a porsi le basi per l’elaborazione della Costituzione repubblicana. Rifiutando, pur da liberale, di leggere il principio di uguaglianza in senso esclusivamente formale (vale a dire senza tener conto delle condizioni sostanziali di vita delle persone), il futuro Presidente della Repubblica invitava il suo uditorio a riflettere sul diverso valore che assumevano le medesime dieci lire se usate per acquistare un piatto di minestra o per assicurarsi un posto a teatro. In termini economicamente più precisi, la sua attenzione era rivolta alla teoria dell’utilità marginale decrescente: una teoria per la quale maggiore è la disponibilità di un determinato bene, minore è la soddisfazione che se ne può trarre. Banalizzando: così come la decima fetta di torta mi procurerà un benessere minore della prima – e, anzi, potrebbe espormi al rischio d’indigestione –, allo stesso modo l’aumentare del denaro a disposizione m’indurrà a effettuare spese via via sempre meno essenziali. Nutrire il fisico (il piatto di minestra) è diverso dal nutrire lo spirito (la poltrona a teatro): quantomeno perché il secondo nutrimento non può prescindere dal primo – mentre non è vero il contrario. Dunque, a chi non ha problemi a procurarsi il pane l’erario può richiedere un sacrificio maggiore e, al crescere del reddito o del patrimonio, domandare una più elevata percentuale di risorse da versare al fisco. È, questo, il nucleo essenziale della progressività fiscale, il principio a cui sono ispirati i sistemi tributari contemporanei – tra cui il nostro, per previsione dell’articolo 53 della Costituzione –, diversamente da quanto accadeva per il fisco degli Stati ottocenteschi, costruito secondo la costante proporzionalità delle aliquote, come anche prevedeva l’articolo 25 dello Statuto albertino.
La flat tax è ingiusta… anche se non sembra
Immaginiamo, per esempio, due contribuenti dotati di una ricchezza il primo di 100, il secondo di 200. Se il sistema tributario tassa entrambi con un’aliquota unica del 20 per cento, il primo verserà al fisco 20 e il secondo 40. In termini assoluti, il secondo contribuente pagherà il doppio del primo, ma, in termini relativi, rispetto alla ricchezza di partenza, entrambi si ritrovano a versare una quota pari ai due decimi dei propri beni. Un sistema tributario così congegnato opererebbe secondo il principio di proporzionalità: un principio in base al quale tutti pagano in tasse la medesima percentuale rispetto alla ricchezza di partenza e, in esito al pagamento delle imposte, le loro reciproche posizioni rimangono immutate. Contro quel che si potrebbe intuitivamente pensare, quello ora ipotizzato sarebbe un sistema ingiusto. Ingiusto proprio perché pretende da tutti nello stesso modo. Ingiusto perché uguale. Un paradosso solo apparente, come sancito dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 3 del 1957: perché trattare in modo uguale i disuguali non è giustizia, è ingiustizia. Per essere giusti occorre tenere conto delle condizioni concrete in cui vivono le persone e “calibrare” l’azione dei pubblici poteri in rapporto a tali condizioni. Occorrerà, allora, gravare di un’imposizione fiscale maggiore chi ha di più, organizzando il sistema tributario secondo il principio non di proporzionalità, ma di progressività. E, così, nel nostro esempio, se al primo contribuente, che possiede 100, viene applicata un’aliquota del 20 per cento, al secondo contribuente, che possiede 200, si dovrà applicare un’aliquota maggiore, ipotizziamo del 30 per cento. In tal modo, mentre il primo soggetto corrisponderà al fisco 20, il secondo corrisponderà 60, vale a dire un ammontare superiore non solo in termini assoluti, ma anche in termini relativi: il primo contribuente dovrà rinunciare, infatti, ai due decimi dei propri beni, il secondo ai tre decimi.
Progressivo, cioè giusto
Questo, sì, che sarebbe un sistema giusto: perché lungi dal far valere il principio di uguaglianza in senso meramente «formale» – vale a dire in astratto, senza considerare la realtà alla quale verrebbe applicato – attribuirebbe a tale principio un valore «sostanziale» – capace, cioè, di tener conto della concretezza delle situazioni su cui andrebbe a incidere.
Progressivo significa, dunque, crescente: al crescere della ricchezza cresce l’aliquota attraverso cui viene effettuato il prelievo fiscale. Al contrario, proporzionale significa non crescente, e cioè lineare: al crescere della ricchezza l’aliquota attraverso cui viene effettuato il prelievo fiscale non cresce, resta stabile. Se il primo modello è graficamente raffigurabile attraverso una retta spezzata che procede in diagonale dal basso verso l’alto, il secondo lo è tramite una retta che si mantiene sempre piatta. Flat, in inglese. Da cui l’espressione flat tax con la quale è designata la proposta di sostituire al principio di progressività il principio di proporzionalità quale cardine del sistema tributario. Ma è proprio nel disallineamento tra la retta crescente della ricchezza e la retta lineare dell’aliquota fiscale che si annida l’ingiustizia. Un’ingiustizia che i fautori della flat tax vorrebbero infliggere a tutti noi.
Chi sostiene la flat tax?
Certo, non è un caso che i Paesi del mondo in cui tale proposta è divenuta regola – tra i più grandi, la Russia e molte ex repubbliche socialiste sovietiche, la Romania, l’Ungheria, la Bulgaria, la Bolivia, il Madagascar, la Mongolia – siano tra quelli maggiormente segnati dall’ineguale distribuzione delle risorse: dunque, tra quelli socialmente più ingiusti. In Italia, oltre a partiti di destra ed estrema destra, come Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, è soprattutto il centro studi intitolato al libertario Bruno Leoni a sostenere questa prospettiva. L’egemonia culturale del liberismo è, tuttavia, tale che anche sulla stampa considerata progressista si possono oramai leggere frasi di questo genere:
«nella riformulazione delle imposte sulle persone fisiche si dovrebbe abbandonare il mito della progressività a scopi redistributivi: meglio redistribuire con il welfare e gli investimenti pubblici, favorendo efficienza e semplicità del sistema tributario».
Se si può comprendere che l’autore di queste parole – l’economista Alessandro Penati – sia digiuno di diritto al punto da non saper discernere tra mito e disposizione costituzionale (come già ricordato, la progressività è sancita dall’articolo 53 della Costituzione), sorprende che egli, da economista, non sia in grado di comprendere che il welfare, lungi dall’essere un’alternativa alla redistribuzione della ricchezza, ne è la principale conseguenza.
In copertina, foto di Nataliya Vaitkevich da Pexels